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I NOSTRI COMPITI
Contributo del Coordinamento nazionale di “Lavoro Società - Per una CGIL unita e plurale”
nel dibattito aperto in CGIL con le “tre giornate di lavoro”
Premessa
Siamo in presenza di una profonda crisi sanitaria, sociale e economica, strutturale e globale. Una pandemia non inaspettata ma non prevenuta, per irresponsabilità e supponenza del potere economico e politico. In questa tragedia globale ci sono enormi responsabilità che non devono e non possono essere rimosse.
Un evento tragico che ha fulminato molti dogmi, frantumato certezze e reso antistoriche le ideologie liberiste che si fondavano sulla centralità del mercato e del profitto, sullo sfruttamento del pianeta e delle persone, sulle diseguaglianze e sulle ingiustizie sociali.
Cambiare radicalmente approccio, cultura, valori e il sistema economico e sociale non è una opzione ma una impellente necessità di sopravvivenza. Occorre avere lo sguardo lungo, la testa rivolta in avanti, ma occorre anche non rimuovere la realtà, individuare errori, colpe e modelli sbagliati e visioni di società fallimentari.
L’opzione in campo non è il ritorno a una impossibile “normalità” ma salvare il pianeta, il genere umano e non il capitalismo e il profitto per pochi. L’impatto della crisi legata alla pandemia sul sistema italiano, sul tessuto produttivo e sociale sarà pesantissimo.
Questa è la sfida enorme da affrontare e da vincere, che investe tutte e tutti, che ci responsabilizza individualmente e collettivamente come persone, come dirigenti e militanti della CGIL. Il futuro per le nuove generazioni, la civiltà democratica e del diritto sono a rischio. L’unità dl mondo del lavoro è una precondizione necessaria per rinforzare partecipazione e mobilitazione, spostare i rapporti di forza per conquistare ciò che rivendichiamo nelle piattaforme confederali e categoriali. Nessuna semplificazione ci è permessa la lasciamo ai razzisti, ai nazionalisti e ai populisti della destra. Sappiamo che occorre una visione alta, un progetto di paese, un modello di crescita e di sviluppo che unifichi popoli e nazioni e delinei e garantisca a tutte e a tutti un mondo migliore.
È l’utopia del possibile. Il prima, il durante e il dopo non vanno separati; tutto si tiene e tutto è connesso. La pandemia ha accelerato, drammatizzato una realtà socio economica esistente, ha portato alla luce limiti e devianze storiche del paese. Ha messo a nudo una società e un sistema dove tutto si è trasformato in mercato e in profitto; la vita e la salute delle persone, il bene pubblico, la sanità, l’istruzione, l’acqua, l’energia e persino la vecchiaia. Occorre fare memoria di noi stessi, ora prima che la paura, la riflessione, il pensiero lungo siano sovrastati dal prima, dalle stesse logiche, dagli stessi interessi privati, dalle bramosie dei “padroni del vapore”, da un capitalismo privo di responsabilità sociale, rapace onnivoro; cioè da coloro che sono in parte in causa della pandemia e dello stesso sconvolgimento del pianeta e degli equilibri della natura.
Anche nel dopo pandemia si ripresenta lo scontro tra gli interessi, tra le rappresentanze sociali, tra capitale e lavoro. C’è un sentimento diffuso di cambiamento, un bisogno di socialità e di sicurezza, di solidarietà, di libertà e di giustizia sociale che vanno riconosciuti, valorizzati e rappresentati. C’è un bisogno assoluto di riunificare il mondo del lavoro, di rappresentarlo e di renderlo protagonista del proprio futuro, di spostare rapporti di forza per difendere le conquiste storiche e conquistarne delle nuove per tutte e per tutti.
I nostri compiti
La posta dello scontro politico nel paese è chiara: chi pagherà il prezzo della crisi di sistema, chi gestirà le risorse del dopo Covid19 e quale segno dare alle politiche economiche e sociali per la costruzione del futuro.
Il Governo è sotto attacco dalla destra politica, ma ancor più da quella rappresentata da Confindustria, che arriva ad ipotizzare un ritorno alla Camera dei fasci e delle corporazioni.
Le uscite del Presidente degli industriali non vanno sottovalutate. Mirano a sancire il primato dell’impresa privata e a riscrivere le stesse forme della politica, con un attacco diretto alla Costituzione. Un programma di restaurazione sociale. Dobbiamo essere netti ed incisivi nel contrastare il continuo logoramento del ruolo del Lavoro, delle sue organizzazioni di rappresentanza e del contratto nazionale. I Costituenti ben ricordavano la viltà della classe padronale durante il fascismo e il ruolo straordinario a difesa del lavoro e delle fabbriche dato dal movimento operaio, a costo della stessa vita.
Parlare di patti sociali o di accordi triangolari neo-concertativi è oggi insostenibile anche solo come ipotesi di scuola.
Il Governo Conte deve fare politiche sociali ed economiche radicalmente alternative, se non vuole essere sostituito con una maggioranza ancor più rassicurante per chi vuole che tutto continui come prima, anzi peggio, per il mondo del lavoro e la nostra rappresentanza.
La Cgil deve riprendere una iniziativa nelle piazze e nel paese a sostegno delle proprie proposte: niente ci verrà regalato, e dobbiamo riavviare i motori della partecipazione e della mobilitazione.
Il blocco a tempo indeterminato dei licenziamenti e un sostegno al reddito di natura universale per un tempo lungo che copra tutti i lavoratori e le lavoratrici, disoccupati, cassintegrati, partite Iva, discontinui, stagisti, lavoro grigio e nero. Si conquista il consenso sociale di chi subisce le scelte del Capitale e di Confindustria concretamente, migliorando le condizioni materiali di chi per vivere ha solo la possibilità di vendere la propria forza lavoro, qualunque sia il colore della sua pelle.
Un sostegno al reddito universale si lega a rinnovi salariali significativi, necessari per compensare la perdita di potere d’acquisto subita dai salari negli ultimi trent’anni.
Questo dobbiamo chiedere al Governo, assieme all’allargamento del perimetro pubblico, che significa robuste assunzioni nel pubblico impiego, risorse significative per i rinnovi contrattuali, reinternalizzazione di interi settori ed espansione degli ambiti rientrati nelle prerogative di cittadinanza universale. Basta con la teoria e la pratica dello Stato minimo.
Gli aumenti salariali non devono prevedere per nulla la strada della decontribuzione, mentre la defiscalizzazione non deve tradursi in mancata incidenza né sui sovraprofitti né sulle rendite, né risultare una semplice riallocazione di risorse all’interno della classe dei salariati, con il rischio di un indebolimento del sistema dello stato sociale.
La pandemia ha evidenziato l’essenzialità, oltre a tutto il sistema sanitario pubblico da potenziare e valorizzare, di molti lavori poveri e “dequalificati” (pulizie, mense, agricoltura, logistica, rider, badanti, …) che in termini di precarietà, orari di lavoro e retribuzioni costituiscono spesso il livello più basso delle condizioni salariali e di lavoro. Si pone con forza e nettezza il tema dalla piena valorizzazione di questi lavori e lavoratrici e lavoratori garantendo stabilità, tempo pieno, salari adeguati, garanzie previdenziali anche con forme ulteriori di defiscalizzazione, quale tangibile contributo generale a lavori che sono e saranno sempre più essenziali.
Si rende necessaria una profonda riflessione e riconsiderazione sia del welfare aziendale, oggettivamente in contraddizione con l’universalità della sanità pubblica, sia della seconda gamba pensionistica affidata ad una dimensione finanziaria a redditività decrescente.
La piattaforma sulla previdenza e le modifiche strutturali della legge Fornero e delle iniquità del sistema contributivo come si è delineato fino ad oggi devono restare al centro dell’iniziativa sindacale riconquistando flessibilità in uscita, certezza di pensioni adeguate per lavoratori e lavoratrici con carriera discontinua e occupazioni finora precarie, la fine della rincorsa – sia in termini di età ed anni lavorativi che di rendimenti – della logica dell’aspettativa di vita.
Il ruolo del pubblico in economia è probabilmente la partita più rilevante che si apre davanti a noi: basta dare risorse ingentissime a fondo perduto al sistema delle imprese private, è necessario lo Stato imprenditore. Se il pubblico, Stato e sistema delle autonomie, interviene in maniera ingente nelle imprese private deve entrare a far parte della compagine proprietaria, determinando scelte ed orientamenti. Basta con la litania dell’intervento residuale e a tempo dello Stato che interviene solo nei fallimenti del mercato. Il mercato ha fallito su tutto, ed è necessario per riprogettare il Paese - imprimendo quella cesura da noi reclamata - che il pubblico decida cosa e come produrre nei settori strategici, nei beni comuni, servizi pubblici locali e monopoli naturali.
La revoca alla famiglia Benetton delle concessioni autostradali è un passo importante per concretizzare tale scelta, così come una rete digitale unica e pubblica, assieme ad una normativa di sostegno per la ripubblicizzazione dei servizi pubblici locali, partendo dalla scelta dell’acqua pubblica.
Creare buon lavoro, redistribuirlo attraverso la riduzione degli orari a parità di salario e non incentivare il lavoro precario e a tempo determinato togliendo le stesse limitazioni introdotte dal decreto dignità.
La sfida della “ripresa” dall’emergenza Covid e dalle sue conseguenze sociali ed economiche può e deve trasformarsi, nei prossimi mesi, nell’opportunità di un forte intervento pubblico mirato ad una necessaria riconversione economica e produttiva nell’ottica di uno sviluppo ecologicamente e socialmente sostenibile.
L’intervento pubblico diretto deve garantire, oltre al potenziamento della scuola pubblica e del sistema socio-assistenziale, soprattutto in tema di servizi territoriali, domiciliari e di prevenzione, una forte riconversione del sistema produttivo, a partire dall’industria pesante e inquinante, dalla riconversione dell’industria bellica, una nuova mobilità collettiva a basso consumo energetico e capace di connettere anche le aree più remote del paese, da un piano di riqualificazione del territorio, a partire dalle aree interne, un piano di edilizia pubblica residenziale, non con nuove costruzioni, ma con la riabilitazione, ristrutturazione e uso sociale del vasto patrimonio edilizio inutilizzato.
Politiche innovative, basate sulla programmazione territoriale, su piani settoriali che partano dalla valorizzazione del lavoro stabile, di qualità, manuale e intellettuale, dal “ripopolamento” e dal lavoro qualificato ai giovani del e nel mezzogiorno.
In questo quadro, il tema delle migrazioni non è affatto marginale. Una nuova politica dell’immigrazione, che chiuda definitivamente la fase securitaria e discriminatoria avviata con la Turco-Napolitano, proseguita con la Bossi-Fini e, più di recente, esaltata dai decreti sicurezza, e favorisca i canali di accesso regolari per ricerca e avvio al lavoro – in un quadro di piena uguaglianza con gli autoctoni – costituisce un elemento importante e complementare alle politiche economiche e sociali per la “ripresa” di un paese che vive da decenni una strutturale crisi demografica.
Centrali sono la redistribuzione della ricchezza e una vera riforma fiscale capace di colpire l’evasione e tassare i grandi patrimoni, con una lotta serrata alla rendita immobiliare e finanziaria.
L’iniziativa della nostra Organizzazione contro il Jobs Act ed a sostegno della Carta dei diritti universali del lavoro sta avendo in sede di pronunciamenti a livello nazionale ed europeo importanti successi: dobbiamo chiedere con forza al Governo sia una legge su rappresentanza e rappresentatività – che rafforza e tutela il ruolo delle Organizzazioni sindacali - che il ripristino potenziato dell’articolo 18, che permette di far vivere posizioni autonome dei lavoratori e delle lavoratrici e delle loro RSU e RLS all’interno dei posti di lavoro. Un Sindacato senza delegati è un sindacato istituzionale che vive di riconoscimenti triangolari. La Cgil della Carta dei diritti, del sindacato di strada e della contrattazione inclusiva vive solo se è possibile poter fare i delegati con un minimo di tutela a fronte delle rappresaglie padronali in un quadro di disoccupazione e sottooccupazione.
Questione sociale e questione democratica sono sempre andate di pari passo, e devono ricominciare a in questa fase che vede il divorzio sempre più marcato tra Capitalismo e Democrazia.
La stessa Europa dei Trattati che costituzionalizzano il neoliberismo e la polarizzazione tra centri, sempre meno, e periferie, sempre di più, deve essere radicalmente ripensata e riscritta. La discussione sul Mes non va affatto banalizzata (le condizionalità sono scritte nel trattato interstatale istitutivo e non sono cancellate da una lettera interpretativa della Commissione europea, che non è la titolare del fondo), ma deve divenire parte integrante di un’altra idea e pratica dell’Europa: se volessimo affidarci ad una citazione potremmo cavarcela con “Temo i Greci soprattutto quando portano i doni”.
Così come non va affatto lasciata sottotraccia la scadenza elettorale di conferma del taglio dei parlamentari che è un taglio alla democrazia sostanziale, tanto più che è uscita dalla discussione pubblica e dalle scelte parlamentari quella legge elettorale totalmente e radicalmente proporzionale unico correttivo ad una ulteriore distorsione ademocratica del nostro sistema politico-istituzionale.
La Cgil deve confermare il suo impegno per la difesa e lo sviluppo della democrazia, intesa come partecipazione attiva dei cittadini, a partire dalle lavoratrici e dai lavoratori, dalle pensionate e dai pensionati. Non può quindi rimanere inerte di fronte al referendum istituzionale per la conferma o meno della legge di taglio dei parlamentari, che costituirebbe un ulteriore allontanamento della rappresentanza parlamentare dai rappresentati, a partire dal mondo del lavoro. Così come fece in occasione del referendum costituzionale del 2016, la Cgil deve coerentemente impegnarsi in una campagna di informazione sensibilizzazione per il No a questa modifica costituzionale.
Allo stesso modo, l’esperienza di questi mesi ha reso ancor più evidente l’impraticabilità di qualsiasi ipotesi di “autonomia differenziata” e la necessità di una solida gestione centrale dei servizi e diritti fondamentali, a partire dalla sanità, garantendo effettivamente la piena uguaglianza dei cittadini e dei residenti su tutto il territorio nazionale.
Ci aspetta come Cgil una fase complicata, nella quale non dobbiamo mai smarrire il nesso tra radicalità della proposta, capacità di mobilitazione e raggiungimento di avanzamenti positivi, seppur parziali, per il largo mondo del lavoro dipendente e subordinato.
Una fase, in cui, pur con le difficoltà dovute alle misure di distanziamento, il ruolo degli organismi dirigenti della confederazione, Direttivo nazionale e Assemblea generale, organismi rappresentativi del pensiero e del pluralismo presente nell’organizzazione, deve tornare rapidamente centrale, superando la pratica di riunioni di “organismi di fatto ed extrastatutari” come le riunioni dei segretari generali.
Siamo un soggetto politico generale di rappresentanza sociale, forte di una democrazia partecipativa, di un pluralismo delle idee e di pensiero. Un collante che deve, anche in questa difficile fase, continuare a essere la caratteristica fondante di una organizzazione democratica e complessa come la nostra.
Come CGIL non abbiamo mai rinunciato alla nostra idealità, alla radicalità di pensiero e di proposta., non ci siamo piegati al conformismo che, per troppi politici e non solo, è anche una forma di stupidità rinunciataria, di conservatorismo opportunistico. Abbiamo bisogno come CGIL di costruire insieme il cambiamento necessario, senza rinunciare alla nostra democrazia, i valori storici e ai simboli potenti che un virus non può uccidere.
Contributo del Coordinamento nazionale di “Lavoro Società - Per una CGIL unita e plurale”
1 luglio 2020
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