Non è affatto “surreale” - come invece la definisce Napolitano sulle pagine di Repubblica – la “guerra” sul referendum costituzionale. Basterebbe già considerare il modo in cui le riforme sono nate. Un’iniziativa di governo mai avallata da un voto su un preciso programma elettorale, e affidata a un parlamento delegittimato da una pronuncia di incostituzionalità della legge elettorale. Un percorso parlamentare segnato da forzature gravi e ripetute, e da uno scontro frontale tra maggioranza e opposizioni. Un’approvazione da parte di una maggioranza risicata, raccogliticcia e occasionale, resa possibile solo dal premio di maggioranza dichiarato incostituzionale, e con la partecipazione essenziale di transfughi e voltagabbana.
Nonostante un imponente assedio mediatico, il paese non si è lasciato convincere, come prova il fallimento della arrogante sfida plebiscitaria che Renzi ha lanciato su sé stesso. Il “No” rimane l’unica scelta possibile. La riforma restringe ulteriormente la già vacillante capacità rappresentativa delle istituzioni, abolendo non già il Senato ma il diritto degli italiani di votare e scegliere i senatori. Per i riformatori, è un diritto che vale poco. Secondo la Ragioneria dello Stato i risparmi per la riforma del Senato si aggirano sui 48 milioni all’anno, che spalmati su 50 milioni circa di aventi diritto al voto danno un risparmio annuale di circa 96 centesimi. Secondo il Governo, il diritto al voto degli italiani vale meno di una tazza di caffè all’anno.
Quanto alla celebrata semplificazione, la formazione delle leggi – artt. 70 e 72 riformati – si frantuma in una molteplicità di modelli procedimentali, con ovvia possibilità di ritardi e conflitti anche davanti alla Corte costituzionale. Mentre tutti sanno che ritardi e defatiganti navette non vengono dal bicameralismo paritario, ma sempre e comunque da problemi politici interni alla maggioranza del momento: basta pensare alle unioni civili, alla prescrizione, alle intercettazioni, al testamento biologico. E un problema politico nella maggioranza si manifesta tal quale anche in un sistema monocamerale.
Il disegno è concentrare il potere sull’esecutivo. Si consegna al governo il controllo sull’agenda parlamentare con il voto a data certa. Con l’italicum si mette la sola camera politica, con una maggioranza di ben 340 seggi, nelle mani del partito vincente nelle elezioni. In un sistema ormai tripolare, l’iperpremio di maggioranza e il ballottaggio senza soglia aprono la via a un partito anche ampiamente minoritario nei consensi reali. Il voto bloccato sui capilista e le liste corte nei cento collegi dell’Italicum consentono al leader del partito un controllo efficace nella scelta di chi deve sedere in parlamento. E chi ha un blocco di 340 voti nella camera è a un passo dai quorum per l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, del Csm, delle autorità indipendenti. Per contro, è del tutto illusorio il rafforzamento degli istituti di democrazia diretta – leggi di iniziativa popolare e referendum. E si reintroduce una misura pesante di centralismo statale con la modifica del Titolo V.
Una stabilità taroccata e fittizia, a spese della rappresentanza politica, del sistema di checks and balances, della partecipazione democratica. Risponde alla filosofia che nei tempi difficili che abbiamo di fronte – crisi economica, terrorismo – la risposta è nella concentrazione del potere nelle stanze di governo. Questo perché si ipotizza un prezzo pesante a carico dei diritti di cui alla Parte I della Costituzione, che in prospettiva vanno limitati e compressi. Per farlo con efficacia, bisogna mettere nell’angolo i potenziali dissensi. Un esempio si è già avuto nel modo arrogante e autoreferenziale con cui il governo ha affrontato temi come la cosiddetta “buona scuola”, il jobs act, o il referendum sulle trivelle. Battersi contro le riforme renziane significa lottare per i diritti di cui alla Parte I della Costituzione.
Si sostiene che l’instabilità conseguente alla vittoria del “No” sarebbe esiziale per l’Italia nello scenario europeo e mondiale. Un argomento in sé risibile. Del resto, chi avrebbe mai determinato quel rischio di instabilità se non lo stesso Renzi, minacciando sfracelli nel caso di sconfitta, e usando strumentalmente la riforma per consolidarsi a Palazzo Chigi?
Non meraviglia dunque che il plauso a Renzi venga del potere economico e finanziario, da J.P.Morgan a Marchionne, a Confindustria, al Forum Ambrosetti, mentre grandi organizzazioni che hanno concorso a costruire la democrazia si esprimono contro la riforma, dalla Cgil all’Anpi. Ma i governi passano, le Costituzioni restano. E chi mai scambierebbe la Costituzione di De Gasperi, Nenni e Togliatti con quella di Renzi, Boschi e Verdini?