“Deforma” costituzionale e italicum sono parti di un unico progetto di smantellamento della democrazia.
Le ragioni del “No” alla controriforma costituzionale voluta dal governo e dalla maggioranza parlamentare guidati da Renzi stanno sia nel contesto che nel testo della legge medesima. Le prime si sono venute ulteriormente chiarendo in questi ultimi giorni. Come sappiamo la “deforma” costituzionale ha tristi precedenti, l’ultimo dei quali è il documento varato nel giugno del 2013 dal centro studi della J.P. Morgan, il quale spingeva i governi dei paesi periferici della Ue a modificare le loro Costituzioni, ritenute viziate da principi socialisti e tali da impedire il pieno svolgimento dei mercati e dell’autorità di comando dei governi.
Nel caso italiano, a questo diktat si è aggiunto di recente l’endorsement della Confindustria, che per bocca del neopresidente Vincenzo Boccia si è apertamente schierata a favore delle modifiche di quasi tutta la seconda parte della Costituzione, ben 47 articoli.
In sostanza si conferma che gli interessi dei mercati finanziari e delle forze padronali coincidono in un attacco frontale ai fondamenti della democrazia sanciti dalla nostra Costituzione. Cambiare la seconda parte, ovvero il sistema istituzionale, significa pregiudicare anche l’applicazione dei diritti sociali e politici contenuti nella prima parte della Carta. Per questo il governo non ha guardato in faccia ai regolamenti parlamentari, ha usato il voto di fiducia, è intervenuto pesantemente in una materia dalla quale avrebbe dovuto mantenersi estraneo, come fecero i governi dei secondi anni quaranta, quando la nostra Costituzione nacque.
Per di più il governo lo ha fatto portando al voto un Parlamento già delegittimato dalla sentenza della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del “porcellum”. Si può discutere all’infinito se quella sentenza poteva provocare di per sé lo scioglimento o meno delle camere. Ma certamente il Parlamento rimasto in carica non aveva l’autorità politica per poter mettere mano alla Costituzione, e votare una legge elettorale – l’italicum - che contraddice i principi della stessa sentenza della Consulta.
Basterebbero queste considerazioni da sole a motivare il “No”. Ma esse si approfondiscono se guardiamo al merito della legge, e la colleghiamo nei suoi effetti all’italicum. Ne esce il quadro di un sistema oligarchico, ove il peso dell’esecutivo sul legislativo è enormemente aumentato; ove il centralismo è accresciuto; il bicameralismo non è cancellato, ma sostituito da una Camera di nominati attraverso il sistema dai capilista bloccati, e da un Senato sottratto al voto diretto dei cittadini, pur continuando ad esistere e ad avere voce in capitolo su leggi importanti, nonché a decidere l’elezione di membri della Corte Costituzionale, delicatissimo organo di garanzia a difesa della nostra democrazia.
In sostanza, “deforma” costituzionale e italicum sono parti di un unico progetto di smantellamento della democrazia. E’ una scelta che viene da lontano. Perfettamente coerente con le esigenze del neoliberismo e della finanziarizzazione del sistema economico, che non tollerano non solo lo sviluppo della lotta sociale, ma anche il normale funzionamento della democrazia rappresentativa, quella che un tempo avremmo chiamato borghese. Questo è già evidente nell’impianto istituzionale europeo, ove il Parlamento, unico organo eletto direttamente con metodo proporzionale, ha poteri estremamente limitati, mentre le sedi delle vere decisioni sono al di fuori della portata del voto dei cittadini, come il Consiglio europeo, la Commissione europea e l’Eurogruppo. Per non parlare della Bce.
Quindi ad ottobre e da subito, con la raccolta delle firme in corso contro l’italicum e per il referendum costituzionale – quest’ultimo, ricordiamolo ancora una volta, senza quorum – e per i referendum su scuola, ambiente e lavoro, si gioca una partita che va ben al di là della sopravvivenza o meno di questo governo, ma concerne gli assetti istituzionali, politici e sociali del nostro paese per molti anni a venire.
Giorgio Napolitano ha detto che il “No” è un’offesa a lui; Matteo Renzi ha affermato che se perde se ne va: il ministro Franceschini che il “No” è un voto contro il paese. Anche re Umberto usava toni apocalittici alla vigilia del referendum su monarchia e repubblica nel 1946. Ma il diluvio non ci fu. Gli italiani scelsero la repubblica democratica, e ora sono chiamati ancora una volta a difenderla.