Il Primo Maggio a Portella della Ginestra siamo ripartiti dalle nostre radici per guardare al futuro. Con la manifestazione del 6 maggio, abbiamo rivendicato un risultato importante: la conversione in legge del decreto su voucher e responsabilità solidale negli appalti, che ha coinvolto un pezzo di paese, oltre i nostri recinti.

La Cgil è uscita dalla difensiva. Con l’azione referendaria, la proposta della Carta dei diritti - che deve diventare legge - e con il Piano del lavoro abbiamo posto le basi per conquistare una diversa legislazione sul lavoro, più che mai urgente visti gli esiti disastrosi del jobs act e delle politiche dei bonus, l’aumento dei licenziamenti e della precarietà e l’assenza di investimenti pubblici e di programmazione per un rilancio del paese.

Scelte fallimentari che si riflettono nella manovrina del governo Gentiloni: ancora una volta si riduce la spesa pubblica, mentre il lavoro resta il grande assente. La Cgil può guardare al futuro con più energia, credibilità e consenso.

Ora si può aprire una nuova stagione di rilancio della nostra azione vertenziale sul terreno sociale, con priorità precise: nuovo welfare, riforma del sistema fiscale, salute e prevenzione nel lavoro, centralità del servizio sanitario nazionale, istruzione e previdenza pubbliche, pensioni di oggi e del futuro, tema che resta una ferita aperta.
Va rilanciato l’obiettivo della redistribuzione del lavoro e della ricchezza, questioni di merito attuali e di prospettiva.

E occorre tornare nelle piazze per difendere la pace contro le guerre, contro il razzismo, per l’accoglienza, la giustizia e la democrazia, rinforzando i ponti tra generazioni, l’unità tra disoccupati, lavoratori e pensionati, migranti.

E’ in atto un duro attacco, politico e mediatico, al sindacato confederale e in particolare alla Cgil. Un’onda lunga che trova venti favorevoli nell’Europa liberista e nei governi nazionali, nel capitalismo reazionario che punta a delocalizzare il patrimonio produttivo, smantellando conquiste storiche, umiliando la dignità di chi lavora.

In questo difficile contesto di inesistenti sponde politiche, la Cgil ha collocato la sua autonoma azione politica e sociale confederale. Abbiamo faticosamente costruito un argine di difesa, organizzato mobilitazioni unitarie generali e categoriali, conquistato, e da conquistare, contratti nazionali, presentato piattaforme sui temi sociali.
Proponiamo un orizzonte ideale, avanziamo al paese, e a una politica poco credibile e lontana, una prospettiva di società solidale e più eguale, contrapposta all’ideologia liberista.

La strada è indicata: non ci resta che percorrerla con coerenza, nell’unità della nostra Cgil.

Come evidenziato da Carlo Freccero in molte occasioni, i meccanismi di scelta delle opzioni politiche da parte del M5S possono essere sintetizzate come “il risultato della discussione al bar”. In altre parole, potendo contare sulla buona capacità di rilevazione delle tendenze in corso da parte della Casaleggio & associati, la scelta finale cade quasi invariabilmente sul senso comune maggioritario su questo o quell’argomento. L’analisi di Freccero, intellettuale a 360 gradi, profondo conoscitore del mezzo televisivo e dell’influsso che l’effetto tv provoca nell’opinione pubblica, trova conferma anche nell’atteggiamento da tenere verso il quotidiano calvario dei migranti in fuga da guerre, carestie, condizioni di vita insostenibili nei loro paesi di origine. Al bar – ma spesso anche (ahinoi) nelle case del popolo e nei circoli Arci – la questione epocale delle migrazioni viene sempre discussa in modo men che riduttivo, echeggiando peraltro quanto viene “narrato” su questo o quel media televisivo. Risultato: l’Italia profonda, quella che nell’ultimo quarto di secolo ha portato un assai discusso tycoon delle televisioni per molte volte a Palazzo Chigi, premia l’opzione fascio-leghista: si va dall’ “aiutiamoli a casa loro”, all’ancora più diretto “prima noi poi loro”. Questo atteggiamento è maggioritario nel paese. E il Movimento 5 Stelle, che vuole essere maggioritario nel paese, agisce di conseguenza. Nel segno di un marketing elettorale che, a ben vedere, è una costante di quasi tutte le forze politiche italiane. Con l’esclusione della sola sinistra di alternativa, che anche per questo non riesce ad uscire dalle secche di consensi elettorali ad una sola cifra. Anche se poi la storia – vedi l’opposizione ai Trattati europei di Maastricht e di Lisbona - le dà ragione. 

Poste Italiane: un servizio pubblico da salvaguardare - di Massimo Balzarini

 

Un convegno per fare il punto sulla ristrutturazione e sulle spinte alla privatizzazione. Mentre l’azienda pubblica deve rispondere ai bisogni dei cittadini e ai diritti dei lavoratori.

Si è svolto lo scorso 10 aprile a Milano, presso la Camera del Lavoro Metropolitana, un convegno sul futuro del gruppo Poste Italiane, organizzato da Slc Cgil Lombardia e Milano. Hanno partecipato, oltre ai dirigenti sindacali di categoria e confederali, gli onorevoli Franco Bordo e Chiara Scuvera, membri delle commissioni parlamentari interessate al tema, Roberto Scanagatti per Anci Lombardia, e Rosario Trefiletti per Federconsumatori

Nelle relazioni introduttive della Slc Lombardia e della Slc di Milano si è fatto il punto sulla privatizzazione del gruppo, avviata nel 2015 e che sarà rimandata ai nuovi vertici aziendali che si stanno insediando in questi giorni, e un bilancio sul triennio dell’amministratore delegato Caio, con i problemi che rimangono aperti per il sindacato e le ricadute sui lavoratori, nonché sull’organizzazione del lavoro.

Di fatto si avvertono le ricadute molto negative causate dalla riorganizzazione già attuata in via sperimentale del recapito a giorni alterni, e la carenza strutturale di personale negli uffici per i lavoratori, a fronte delle centinaia di uscite annue per esodi incentivati che comportano spesso la messa in discussione di diritti contrattuali. Al contempo permangono forti le pressioni commerciali e la tendenza a collocare prodotti finanziari a rischio, contravvenendo le stesse etiche di comportamento di cui Poste si fa vanto.

Non vanno sottovalutate le ricadute della privatizzazione e le conseguenze che possono derivarne per i cittadini. Sono infatti da ricordare non solo i gravi disservizi nella consegna della posta ma il ruolo di presidio del territorio dei singoli uffici postali, e le ricadute sui consumatori derivate della vendita di prodotti ad elevato rischio finanziario.

A contrastare una ristrutturazione del gruppo che ha ricadute negative sui lavoratori e sui cittadini, a fronte delle difficoltà nei rinnovi contrattuali, ricordiamo lo sciopero nazionale unitario di Poste Italiane proclamato lo scorso 4 novembre in continuità alle numerose mobilitazioni territoriali, a partire dallo sciopero regionale della Lombardia del maggio 2016, dell’Emilia in luglio e di molte altre iniziative, unitarie e non, realizzate in altre regioni.

Restano molti nodi da sciogliere in attesa che la politica decida per un vero piano industriale, anche verso scelte di innovazione tecnologica, per un gruppo rilevante nel panorama nazionale, che non deve solo produrre utili ma fare scelte etiche come il presidio del territorio e la commercializzazione di prodotti finanziari etici. Allo stesso modo, la politica non può non farsi carico delle condizioni di lavoro all’interno del gruppo, sia dei dipendenti diretti che dei precari, in crescente aumento, e per la difesa dei salari, procedendo rapidamente al rinnovo del contratto nazionale di lavoro. Non solo: le sperimentazioni introdotte rischiano di compromettere la sicurezza dei lavoratori, e i ritmi incidono negativamente sulla loro salute.

Sono domande e riflessioni che sono state rivolte ai politici presenti al convegno, con la precisa richiesta che possano farsi attivi portatori di problemi sempre più urgenti, su cui i lavoratori del gruppo e l’intero paese attendono risposte positive.

K-flex: un’indecente delocalizzazione - di Giulio Fossati

 

La vicenda della K-Flex è l’ulteriore prova di un capitalismo malato e della necessità di un intervento da parte di un governo sinora impotente. Tutto inizia il 24 gennaio 2017, quando le lavoratrici e i lavoratori entrano in sciopero e in presidio permanente, per impedire la delocalizzazione dell’azienda in Polonia e per bloccare gli annunciati 187 licenziamenti.

La K-Flex di Roncello, in Brianza, è una multinazionale leader mondiale in isolanti in gomma termici e acustici, presente in sessanta paesi con 27 società e undici siti produttivi. Duemila lavoratori (243 a Roncello), 300 milioni di fatturato con l’obiettivo dei 500 entro il 2018, e 10 milioni di utile annuo. Un’azienda in espansione, anche grazie agli straordinari e ai turni a ciclo continuo dei dipendenti. Competenze e capacità messe al servizio di un progetto presentato come una crescita complessiva dell’azienda, e che invece si è tradotto in delocalizzazione e licenziamenti.

Negli anni la K-Flex ha ricevuto 12 milioni di euro di finanziamento pubblico (un milione a fondo perduto) e 23 milioni di euro dalla Cassa depositi e prestiti, che è azionista di cinque aziende K-Flex in Asia in base alla legge100 del 1990. La legge 80 del 2005, articolo 1 comma 12, prevede che i progetti di finanziamento debbano presupporre il mantenimento delle attività produttive in Italia. Inoltre l’azienda, il 28 dicembre 2016, aveva sottoscritto un accordo sindacale che la impegnava a non aprire procedure di riduzione del personale per tutto il 2017.

Nei fatti è stata finanziata la scelta dell’azienda di trasferire questa eccellenza produttiva dove la manodopera costa meno, per fare più profitti. Il territorio brianzolo, che è già stato investito pesantemente dalla crisi e da processi di deindustrializzazione che hanno portato a chiusure, licenziamenti e cassa integrazione, si è trasformato in un deserto produttivo, con un tessuto sociale in disgregazione.

L’assenza di una politica industriale coerente, e una legislazione che rende possibili le delocalizzazioni, hanno generato atteggiamenti di arroganza di molti imprenditori, che non si fanno scrupoli nel calpestare le regole. E’ quanto è avvenuto anche alla K-Flex: di fronte alle richieste sindacali, la direzione ha opposto una chiusura completa, non partecipando agli incontri al ministero dello sviluppo e in Regione. Per questo l’assemblea dei lavoratori a metà aprile decide di denunciare la K-Flex per condotta antisindacale, per il mancato rispetto dell’accordo del 28 dicembre 2016, per l’indisponibilità ad aprire una trattativa, e per le motivazioni riportate nella procedura di licenziamento collettivo.

L’assemblea decide anche di sospendere lo sciopero e di riprendere l’attività lavorativa, ma la mattina del 13 aprile operai e impiegati si trovano di fronte alla serrata. Il27 aprile la K-Flex invia con un telegramma 187 lettere di licenziamento. “La solita arroganza della famiglia Spinelli – replicano i sindacati di categoria - che oltre a non rispettare le istituzioni e i lavoratori, prima dell’udienza del 4 maggio presso il Tribunale di Monza, dove il giudice deciderà in merito alla richiesta di annullare la procedura di licenziamento, sceglie unilateralmente di licenziare i lavoratori”.

Anche per il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, che in occasione del Primo Maggio ha scritto una lettera alle lavoratrici e ai lavoratori, “la scelta della K-Flex è una dimostrazione di arroganza padronale, ma anche di impotenza da parte del nostro governo e del Mise. E’ intollerabile che un’azienda che va bene, che ha ordini, che ha qualità del lavoro, decida di licenziare 187 lavoratori solo perché vuole portare gli impianti da un’altra parte del mondo. Ed è intollerabile che il nostro governo taccia”.

La vertenza K-Flex pone questioni di fondo su un sistema di regole che permette licenziamenti collettivi senza validi motivi e senza mettere in atto ammortizzatori sociali. Il governo nazionale e quello regionale devono attivarsi per l’apertura di un negoziato con le parti sociali, e le istituzioni locali devono garantire quel sostegno alle famiglie colpite dai licenziamenti che finora è venuto dalla cittadinanza. È necessario che il Parlamento legiferi contro le delocalizzazioni, vincolando i finanziamenti al principio che le aziende che ricevono soldi pubblici devono mantenere e sviluppare i livelli occupazionali in Italia, pena sanzioni pesantissime, economiche e amministrative.

Ora la speranza, per le lavoratrici e i lavoratori della K-Flex, è che sia la giustizia a restituire loro diritti e dignità, garantendo il rispetto degli accordi sindacali sottoscritti e il ritiro dei licenziamenti.

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