Cgil, difendere pace, libertà, democrazia, uguaglianza  e solidarietà

 

Assistiamo con grandissima preoccupazione agli orrori della guerra e degli attacchi terroristici che si susseguono in questi giorni e in queste ore e agli effetti, alle inevitabili conseguenze, alla spirale di violenza che questi fatti possono determinare.

A Siria, Svezia, Russia, solo per ricordare gli ultimi avvenimenti, si aggiungono i tanti conflitti dimenticati nel mondo. Le vittime di questa violenza sono le stesse: donne, uomini, bambine e bambini inermi.

Le risposte timide ed inefficaci delle istituzioni e delle diplomazie internazionali hanno favorito e continuano a favorire protagonismi pericolosi e interventi unilaterali. La pace e la condizione delle persone, soprattutto di coloro che sono più indifesi come i bambini, non rappresentano una priorità rispetto a calcoli e posizionamenti strategici nello scacchiere mondiale.

Nessuno può più voltare le spalle a partire dalle istituzioni internazionali ed europee. Si deve aprire una nuova stagione in cui la responsabilità nella costruzione della pace coinvolga la comunità degli stati e dei popoli e venga affermato con nettezza il ruolo delle Nazioni Unite. Questo per impedire azioni militari unilaterali come accaduto in Siria e per imporre a partire da quel territorio una tregua vera che garantisca tutti gli aiuti necessari alle popolazioni.

Allo stesso modo al susseguirsi di attacchi terroristici che minacciano la quotidianità e contribuiscono a costruire un clima di paura e di terrore, occorre che siano date risposte di integrazione, di accoglienza, solidarietà e maggior dialogo fra gli stati.

Alla violenza della guerra e degli attentati terroristici non si può rispondere con altrettanta violenza o con la costruzione di muri d’odio.

Aumentare l’impegno per rimuovere le profonde disuguaglianze, la povertà, e determinare le condizioni che consentano il prevalere della democrazia e dell’uguaglianza: questa è la strada che occorre percorrere per prevenire ed eliminare le cause che determinano guerra e violenza.

La CGIL affermando con forza il proprio impegno contro le guerre e i terrorismi e il sostegno verso le popolazioni colpite, intende costruire e rafforzare, con le altre organizzazioni sindacali e con le realtà associative, tutte quelle iniziative per affermare la pace.

In un momento così difficile, dobbiamo tutti tornare ad essere protagonisti e difendere con ancora più determinazione- in coerenza con la nostra Carta Costituzionale- la pace, la libertà, la democrazia, il valore dell’uguaglianza e della solidarietà.

Sud Corea: il sindacato e la tempesta politica - di Mikyung Ryu

 

Prigioniera 503, Park, Geun-hye.
La rimossa presidente Geun-hye Park è ora chiamata “prigioniera 503”, alla fine del più drammatico processo di sempre nel paese, innescato da uno scandalo per corruzione. Il 9 dicembre scorso, un mese dopo l’avvio delle massicce dimostrazioni delle candele, nell’Assemblea nazionale di 300 membri, 234 hanno votato a favore dell’impeachment, 56 contro, con 2 astenuti e 7 voti nulli. La Corte Costituzionale, il 17 marzo scorso, ha confermato il verdetto con otto voti a favore e nessun contrario.

Negli ultimi quattro mesi, in tutti i fine settimana, milioni di persone si sono riversate nelle strade tenendo in mano candele accese. Nei quattro anni della mala amministrazione della “prigioniera” la gente ha manifestato contro le sue politiche anti lavoro e antidemocratiche.

Alla fine, lo scandalo per corruzione ha agito come il detonatore di una bomba. Il fatto che l’amica intima di Park, Soon-shil Choi, senza alcuna carica ufficiale, controllasse gli affari e i funzionari del governo, e collaborasse alle irregolarità e alle violazioni della legge, ha diffuso indignazione e rabbia. Il partito conservatore ha tentato di riprendere il potere e insistito su un ordinato ritiro da parte di Park. Ma la gente arrabbiata chiedeva dimissioni “immediate e senza condizioni” della “prigioniera”.

Nonostante le posizioni ambigue dei partiti dell’opposizione liberale e le false scuse della “prigioniera 503”, la protesta delle candele è diventata sempre più estesa e rumorosa. Alla fine, la persistenza e la forza della protesta hanno fatto pressione sufficiente perché parlamentari e Corte Costituzionale decidessero l’impeachment.

Prigioniero xxx (numero sconosciuto), Lee, Jay-yong. 
Uno degli atti più sensazionali della vicenda è stato l’arresto di Jay-yong Lee, erede della Samsung, il più potente conglomerato di proprietà familiare del paese. L’impresa di fama mondiale era collusa nella corruzione con un totale di 44 milioni di won coreani (37 milioni di euro) a favore degli affari della famiglia di Choi. Secondo l’accusa, la “prigioniera 503” l’aveva ordinato al “prigioniero 000”. Samsung è stata vittima di coercizione? No. Ha pagato tangenti per avere il sostegno governativo alla successione della guida aziendale dal padre Lee (seconda generazione della famiglia) al Lee figlio (terza generazione). L’allora ministro del Welfare, che soprassiede al Servizio Pensionistico Nazionale (NPS), ordinò che il fondo pensioni sostenesse la fusione tra due affiliate del gruppo Samsung, anche se ciò comportava perdite per NPS, per consentire a Jay-yong Lee, “prigioniero 000”, di aumentare la sua quota in Samsung e aprirgli la strada ad una rapida successione al potere del padre.

Ma non è la fine dello scandalo Samsung. Il conglomerato è famoso per le sue politiche antisindacali, lungo tutta la catena globale di fornitura. Nel 2013, un deputato rivelò un documento che spiegava ogni dettaglio su come minacciare i lavoratori perché non si sindacalizzassero. Documento usato come formazione per ogni livello di direzione del gruppo. Quando il sindacato dei metalmeccanici della Kctu ha organizzato i lavoratori in appalto della riparazione dei prodotti Samsung, l’azienda ha semplicemente cancellato la commessa, con il risultato del licenziamento in massa dei lavoratori sindacalizzati. Anche se Jay-yong Lee non è stato inquisito per questo, la protesta contro le sue violazioni dei diritti del lavoro era diffusa tra il popolo delle candele.

Prigioniero 2006, Han, Sang-gyun.
Mentre scrivo, il presidente del Kctu Sang-yun Han ha già passato 15 mesi in galera. L’Alta corte di Seul l’ha condannato a tre anni di carcere per aver organizzato diverse manifestazioni contro le regressive leggi sul lavoro del governo Park, inclusa la grande manifestazione del 14 novembre 2015. Il governo pensava di bloccare il Kctu, arrestando il suo leader. Al contrario, ha soffiato sul fuoco. Si è diffusa la solidarietà dei sindacati nel mondo e questo ha rafforzato la Kctu. Ancora prima del movimento delle candele, Kctu ha organizzato uno sciopero generale, il 12 novembre 2016, con oltre un milione di dimostranti nelle piazze.

Anche dopo l’impeachment abbiamo molte sfide di fronte. Mentre la “prigioniera 506” e quello “xxx” sono sotto processo, è in pieno svolgimento la campagna verso le presidenziali anticipate. Dopo la protesta delle candele, sempre più cittadini riconoscono il ruolo del sindacato. Kctu continua a sforzarsi perché le richieste dei lavoratori nelle piazze delle candele diventino priorità dell’agenda politica e si espanda il movimento democratico. Abbiamo bisogno di un movimento sindacale più forte, per la pace in Asia, il diritto a sindacalizzarci, un maggior controllo sulle grandi imprese.

 

Il libro di Guido Carpi “Russia 1917: un anno rivoluzionario” (Carocci editore, pagine 199, euro 17) è un affresco, una narrazione scritta con le parole di chi quei fatti li ha vissuti, e li ha giudicati sul momento.

Si avvicina il centesimo anniversario della Rivoluzione di Ottobre. Segno del momentaneo trionfo del liberismo economico e politico in questa parte del globo, la ricorrenza non è ancora all’attenzione dei mass media; né si annunciano, per il momento, nuovi saggi sull’argomento. Il clima è questo.

I nemici del socialismo sono così forti e arroganti che solo poche settimane fa, sul Corriere on line, il giornalista di lusso della borghesia benpensante Pierluigi Battista ha approfittato di una mostra dedicata ai manifesti della Rivoluzione culturale cinese (che c’entra? C’entra, c’entra eccome) per infamare, senza far nomi, tutti quelli che al comunismo hanno creduto.

In questo, spero momentaneo, deserto di iniziative, è appena uscito per i tipi di Carrocci editore “Russia 1917: un anno rivoluzionario” di Guido Carpi. Una cronaca ricostruita su testi contemporanei dei frenetici mesi e giorni che vanno dalla rivoluzione di febbraio a quella d’ottobre. Guido Carpi è un docente di Lingua e letteratura russa dell’Università orientale di Napoli. Questo saggio sulla Rivoluzione sovietica mi pare sia nato nelle more delle ricerche e degli studi che hanno accompagnato la pubblicazione della sua storia della letteratura russa.

Dunque non vi aspettate di leggere un saggio storico, anche se di storia si tratta ed ogni cosa che leggerete è documentata, ogni riflessione trova fondamento in una saggistica vasta e conosciuta, e le fonti sono tutte citate e riportate in una ampia, esaustiva e ragionata bibliografia a fine volume. Quel che comparirà davanti ai vostri occhi è un affresco, una narrazione come si dice oggi, scritta con le parole di chi quei fatti li ha vissuti e li ha giudicati sul momento, o pochi anni dopo nella memorialistica autobiografica. Narratori diversi, di orientamento diverso, ostili o favorevoli alla rivoluzione, o tutte e due le cose insieme a seconda del momento.

A far da contrappunto, l’azione di Lenin e dei bolscevichi, il ruolo che acquistano passo dopo passo (di corsa, beninteso) nell’organizzare la massa operaia della Guardia rossa, e nella determinazione di prendere il potere. Emergono con pennellate rapide figure di rivoluzionari e di controrivoluzionari, uomini e donne, aristocratici, borghesi e proletari (indicati qui in ordine inverso di importanza), gente del popolo, dirigenti politici, artisti e intellettuali. Il protagonista corale sono i proletari e i contadini con le loro contraddizioni e aspettative diverse, con il loro modo violento, determinato di fare la rivoluzione.

Dal punto di vista psicologico, una negazione fattuale del “politicamente corretto” e di una immagine edulcorata della rivoluzione. Che rimane, come scrisse pochi anni dopo un prestigioso dirigente rivoluzionario, un’azione violenta con cui una classe ne rovescia un’altra per prendere il potere.

In questa narrazione corale largo spazio trovano gli artisti, gli scrittori, i poeti, la ricostruzione fattuale del legame tra lavoro culturale e movimenti sociali. Non poteva essere altrimenti con Carpi. Mentre leggi, corri il rischio di innamorarti anche tu, come Guido Carpi, dei popoli russi, degli ebrei in particolare, della loro cultura, della loro psicologia sociale, dell’idea comunista e del leader della rivoluzione, Lenin.

Chiude il libro una citazione coeva di un regista teatrale armeno, che sarebbe scomparso pochi anni dopo ma che avrebbe avuto influenza decisiva sulla cultura sovietica: “(…) sono certo, so che l’operaio a cui adesso appartiene lo Stato, che è padrone di esso, saprà riparare tutto ciò che è stato distrutto. E non si limiterà a ‘riparare’, ma anche edificherà. Sarà per sé che adesso edificherà”. La lezione immortale dell’Ottobre sovietico. Lo scopo di questa recensione, e spero di esserci riuscito, è di indurre alla lettura. Mi permetto quindi un consiglio finale per una riedizione. L’apparato delle note dentro il testo affatica la lettura. Suggerisco di spostarle a piè di pagina.

Tim, anche il ballerino rischia il posto - di Frida Nacinovich

 

Il ballerino più famoso d’Italia rischia di ingrossare le liste della disoccupazione. La vecchia Telecom - oggi Telecom Italia Mobile, Tim - vive l’ennesimo periodo difficile della sua storia. C’è stato uno sciopero nazionale dei lavoratori venti giorni fa, il bis di quello del dicembre scorso, entrambi partecipatissimi. L’ex monopolista delle comunicazioni non trova pace. In piazza a Milano (l’altro corteo era a Roma, le due capitali del paese) c’era, fra i tanti, Matteo Cavazza, delegato sindacale nella sede Tim di Verona e coordinatore nazionale della Slc Cgil, la categoria delle telecomunicazioni.

“Occorre fare un passo indietro - spiega - al 6 ottobre scorso, quando siamo stati convocati dal nuovo management”. Sei mesi prima, la francese Vivendi di Vincent Bollorè aveva assunto il controllo dell’azienda. “Dopo aver scelto Flavio Cattaneo come amministratore delegato - aggiunge Cavazza - Bollorè ha fatto arrivare come responsabile risorse umane un certo Micheli, un celebre ‘tagliatore di teste’, un settantenne che continua a lavorare con una dedizione degna di miglior causa”.

Se il buongiorno si vede dal mattino, non c’è da stupirsi che Tim si sia data come principale obiettivo quello di risparmiare su tutto (tranne che sugli stipendi dei manager...). “Per recuperare un miliardo e seicento milioni di euro in tre anni - sottolinea Cavazza - ci hanno prospettato un futuro di tagli”. Da notare che, nel passato prossimo di Tim, ci sono già stati anni di sacrifici fatti dai lavoratori, costretti a contratti di solidarietà. Sul punto, Cavazza ricorda l’accordo firmato il 27 marzo 2013 con la vecchia governance aziendale. “Al momento della verifica, due anni dopo, l’azienda fece orecchie da mercante. Ogni nostra osservazione batteva contro un muro”.

Ora torniamo al presente, con l’amministratore delegato Cattaneo che rilascia interviste ottimistiche sul futuro di Tim, difendendo un piano industriale “di trasformazione e sviluppo”. “Ma anche gli addetti Tim leggono il Sole 24ore - puntualizza Cavazza - e capiscono che la situazione è molto più complicata. È singolare che la finanza sia informata che c’è un’azienda in salute, mentre al tavolo con i lavoratori vengano prospettati tagli su tagli”.

Si apre la vertenza, i dipendenti Tim lanciano appelli anche alla politica. “Per ora ci hanno ascoltato solo i Cinque stelle. La deputata Lombardi ha presentato un’interrogazione al ministro Poletti per mettere in luce le contraddizioni di Tim: o l’azienda ha preso in giro la grande finanza, oppure i sindacati e lo Stato, vista la richiesta di ammortizzatori sociali”. Alla fine i lavoratori hanno incrociato le braccia. “Lo sciopero del 13 dicembre ha visto un’adesione altissima. Abbiamo scioperato tutti, anche i capi, raggiungendo picchi di partecipazione dell’80%”. Con l’anno nuovo sindacati e azienda tornano a sedersi allo stesso tavolo. “Micheli neppure si è presentato - ricorda Cavazza - e nell’occasione ci annunciano che da febbraio possiamo dire addio alla contrattazione aziendale. Un comportamento inaccettabile per Cgil e sindacati di base, mentre Cisl, Uil e Ugl ci leggono delle ‘aperture’”.

Il resto è cronaca. I lavoratori Tim tornano nuovamente in piazza, il 14 marzo.”Non accettiamo la revoca unilaterale del contratto aziendale,che in concreto vuol dire taglio di salario e diritti, cancellazione di mancato rientro e maggiorazioni, decurtazione di ferie e permessi, controllo individuale, demansionamenti, e trasferimenti coatti”. Un enorme passo indietro rispetto alle condizioni di lavoro, e di vita, conquistate negli anni all’interno di Telecom.

Gli ultimi vent’anni del colosso italiano delle comunicazioni, dalle privatizzazioni della seconda metà degli anni novanta, sono stati sconcertanti. Prima i capitani coraggiosi con la scalata di Colaninno e Gnutti - benedetti dal governo D’Alema - poi Tronchetti Provera con le banche, e ora la Vivendi. Ma era destino che andasse così? “La nostra sensazione - spiega Cavazza - è che si stia cercando un nuovo Marchionne per il settore delle telecomunicazioni”. L’effetto diretto dei 27miliardi di debito finanziario accumulato, guarda caso negli ultimi vent’anni, da tutti coloro che sono entrati nella stanza dei bottoni di Telecom prima e di Tim oggi.

Ma come si vive e si lavora oggi in Telecom, che resta comunque un gigante con decine di migliaia di addetti? “Noi tecnici non siamo stati toccati dalla solidarietà, tanti altri settori invece sì. Insomma non è un bel lavorare. E soprattutto, al di là delle belle parole, degli spot pubblicitari e delle sponsorizzazioni, non sembrano esserci progetti di rilancio basati sull’innovazione, che nel nostro settore è essenziale”.

Un paese che fa acqua da tutte le parti - di Simona Fabiani

 

In occasione della Giornata mondiale dell’acqua, i dati impietosi sulla situazione globale e locale di un bene comune imprescindibile.

Il 22 marzo, come ogni anno, si è celebrata la giornata mondiale dell’acqua, istituita dall’Onu. Il tema di quest’anno erano le acque reflue: “A livello globale, la stragrande maggioranza delle acque reflue dalle nostre case, dalle città, dall’industria e dall’agricoltura rifluiscono in natura senza essere trattate o riutilizzate, inquinano l’ambiente, e perdono preziose sostanze nutritive e altri materiali recuperabili. Invece di sprecare le acque reflue, abbiamo bisogno di ridurle e riutilizzare”, contribuendo a realizzare l’Obiettivo 6 di sviluppo sostenibile di dimezzare la percentuale di acque reflue non trattate, e di aumentare il riciclo dell’acqua e il riutilizzo sicuro.

In materia di acque reflue il nostro paese ha molto da fare essendo sottoposto a tre procedure di infrazione nel settore idrico, per due delle quali la Corte di giustizia europea ha già formulato un primo pronunciamento di condanna (2004/2034 e 2009/2034) per la cattiva applicazione della direttiva 91/271/Cee relativa al trattamento delle acque reflue urbane. La direttiva attiene alla raccolta, al trattamento e allo scarico delle acque reflue generate da agglomerati urbani e da alcuni settori industriali, e prevede che tutti gli agglomerati al di sopra dei duemila abitanti equivalenti siano provvisti di rete fognaria e impianti depurativi, indicando modalità e tempi di adeguamento.

La procedura di infrazione 2004/2034 riguarda 81 agglomerati urbani localizzati in sette regioni: Abruzzo, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Puglia, Sicilia. La procedura 2009/2034 riguarda 34 agglomerati e le regioni interessate sono undici: Abruzzo, Lazio, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Marche, Puglia, Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Veneto, Piemonte.

In occasione della giornata mondiale dell’acqua, l’Istat ha pubblicato una sintesi delle principali statistiche sulle risorse idriche. Così abbiamo la conferma che il 38,2% dell’acqua immessa nelle reti di distribuzione va dispersa, che l’erogazione dell’acqua nelle abitazioni è irregolare (se ne lamentano in media il 9,4% delle famiglie e ben il 37,5% in Calabria, il 29,3% in Sicilia e il 17,9% in Abruzzo), e che tre famiglie su dieci non si fidano di bere l’acqua del rubinetto e comprano acqua minerale in bottiglia.

L’Istat certifica anche lo stato delle acque di balneazione e la graduale riduzione dei ghiacciai alpini causata dal drastico aumento delle temperature medie estive. A questa serie di dati va aggiunto quanto registrato da un’analisi di Federconsumatori dell’ottobre 2016, secondo cui gli aumenti nelle bollette dell’acqua nel periodo 2000-2016 sono stati del 100%.

Passata la ricorrenza non dobbiamo dimenticare la natura di bene comune e diritto universale dell’acqua. E il nostro impegno, come sollecita il sesto degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Onu al 2030, per “Garantire la disponibilità e la gestione sostenibile di acqua e servizi igienici per tutti”. “Ogni anno – segnala il documento - milioni di persone, la maggior parte bambini, muoiono per malattie associate alla scarsità di acqua e di servizi igienici. La mancanza d’acqua, la scarsa qualità dell’acqua e servizi igienico-sanitari inadeguati hanno un impatto negativo sulla sicurezza alimentare, le scelte di sostentamento, e le opportunità educative per le famiglie povere di tutto il mondo. La siccità affligge alcuni dei paesi più poveri del mondo, aggravando la fame e la malnutrizione. Entro il 2050, almeno una persona su quattro rischia di vivere in un paese colpito da carenze croniche o ricorrenti di acqua dolce”.

Non deve mai venir meno il nostro impegno contro i cambiamenti climatici che incrementano la crisi idrica, migrazioni climatiche e i conflitti legati all’accaparramento di questo prezioso bene. E dobbiamo anche valutare l’impronta idrica nelle varie produzioni e consumi, e auspicabilmente tenerne conto nelle nostre scelte. Soprattutto non si può sottacere la mancata considerazione portata avanti in questi anni dai vari decisori politici italiani nei confronti della volontà popolare, che nel referendum del 2011 ha sancito che l’acqua è un bene comune fondamentale la cui gestione deve essere sottratta alle logiche di mercato. Non possiamo arrenderci dal portare avanti questa battaglia.

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