Narendra Modi ha vinto di nuovo e sarà (molto probabilmente) primo ministro per la terza volta consecutiva: un fatto da lui stesso definito “storico”, visto che finora vi era riuscito solo Jawaharlal Nehru, il fondatore dell’India contemporanea. E il Bharatiya Janata Party (Bjp) di Modi preannunciava, ancora appena concluse le lunghe operazioni di voto e avviato il conteggio delle schede, una vittoria da 400 seggi sui 543 della Lok Sabha, il Parlamento, obiettivo sul quale aveva apertamente condotto la campagna elettorale. Una maggioranza che avrebbe dato al partito nazional-induista la possibilità di modificare unilateralmente la Costituzione.
Invece il Bjp, con “soli” 240 seggi, ha perso la maggioranza assoluta (302 seggi) che aveva nella precedente legislatura, e potrà formare il governo solo con l’aiuto dei partiti della National Democratic Alliance (Nda), che insieme hanno ottenuto 292 seggi.
“A sorpresa”, dunque, è cresciuta notevolmente l’opposizione della coalizione I.n.d.i.a. (Indian National Developmental Inclusive Alliance), che totalizza 234 seggi, guidata dallo storico partito del Congress (99 seggi) della dinastia Nehru-Gandhi, oggi rappresentata da Rahul Gandhi.
Particolarmente significativa per la coalizione di opposizione è la vittoria nell’Uttar Pradesh che, con oltre 240 milioni di abitanti, è lo Stato più popoloso dell’India. Qui il Bjp – che prevedeva una vittoria schiacciante – conquista solo 33 degli 80 seggi in palio. A sbaragliare il Bjp nello Stato e trainare la coalizione I.n.d.i.a. è il partito locale Samajwadi party (Sp).
La dimensione continentale del Paese, la suddivisione in 28 Stati e 8 territori, e il sistema elettorale basato su 543 collegi uninominali si rispecchiano in una notevole frammentazione della rappresentanza parlamentare e delle singole coalizioni (8.360 candidati di 744 partiti). In questo contesto si registra anche una crescita, in voti e in seggi, dei diversi partiti comunisti, più o meno radicati in alcuni Stati: nell’insieme conquistano 9 seggi e oltre 17 milioni di voti. Il più consistente è il Partito comunista dell’India (marxista) con 4 seggi e 11 milioni di voti, particolarmente radicato nel West Bengala dove ha a lungo governato dall’indipendenza fino a una decina di anni fa.
Alle elezioni “più grandi e più lunghe del mondo” (https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-11-2024/3211-india-le-elezioni-piu-grandi-e-piu-lunghe-del-mondo-di-giovanni-monaci) avevano diritto di voto 968 milioni di indiani. Sono andati alle urne in 642 milioni.
Per il panorama politico indiano dell’ultimo decennio è quasi un terremoto. Modi e il Bjp godevano di un forte sostegno popolare, mentre il partito del Congresso appariva debole e incapace di resistere. “Gli elettori hanno punito la protervia del Bjp” ha dichiarato Rahul Ghandi. E in effetti le ragioni di una vittoria del Bjp ben al di sotto del previsto sembrano da imputare anche a una campagna elettorale concentrata su polemiche relative a divisioni religiose e di casta, che alcuni osservatori hanno definito come una retorica ‘islamofoba’ e contro i musulmani indiani (15% della popolazione), che avrebbero votato in massa per contrastare il Bjp.
Le opposizioni invece hanno centrato la campagna elettorale sull’economia e la distribuzione della ricchezza. I successi vantati da Modi - l’India è stata una delle economie in più rapida crescita al mondo dalla fine della pandemia di Covid, e nel 2023 il suo Pil è cresciuto del 7,6% – sono reali, ma non hanno modificato una realtà di vaste aree di povertà assoluta e crescita delle diseguaglianze.
La disoccupazione giovanile continua ad essere alta, i poveri sono ancora più di 230 milioni; la distribuzione della ricchezza squilibrata, educazione, sanità e infrastrutture ben lontane dal rispondere ai bisogni di una popolazione in costante crescita demografica. Secondo un rapporto del World Inequality Lab, l’uno per cento più ricco dell’India possiede più del 40% della ricchezza. Il rapporto rileva che la concentrazione della ricchezza è cresciuta come mai prima d’ora negli ultimi dieci anni, e che l’India oggi è più disuguale di quanto non lo fosse durante il dominio coloniale britannico.