L’articolo 9 dello Statuto: questo sconosciuto - di Giovanni Cannella

Nell’articolo relativo alla strage di Casteldaccia (https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-10-2024/3205-la-strage-di-casteldaccia-di-antonio-bevere) Antonio Bevere sollecita un approfondimento civilistico relativo all’articolo 9 dello Statuto dei lavoratori. Provo a rispondere.

La norma statutaria prevede che “i lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica”. In un’epoca in cui la questione della sicurezza del lavoro è, tristemente, di scottante attualità, questa disposizione dovrebbe rappresentare il cardine della (auto)tutela dei lavoratori. Invece si tratta di una norma quasi del tutto ignorata dalla dottrina e dalla giurisprudenza giuslavoristica, e probabilmente sconosciuta alla maggioranza degli stessi lavoratori.

È verosimile che la sua obsolescenza derivi dalla convinzione che la disposizione sia stata assorbita dalle specifiche norme (D. Lgs. 626/94, poi sostituito dal T.U. n. 81/2008 e successive modifiche), che attribuiscono al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls), oltre che alle Rsa, il potere di controllare in azienda l’adozione delle misure di prevenzione.

In realtà la norma non risulta affatto abrogata o modificata, neppure implicitamente, perché le disposizioni successive si limitano ad indicare modalità applicative della norma statutaria, senza che ciò possa significare che si tratti delle uniche ed esaustive modalità.

Questo è confermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte (sentenza 9808/97), secondo cui “il fatto che alcune norme attribuiscono alle rappresentanze sindacali aziendali (vedi art. 9 e 19 l. n. 300 del 1970) o al rappresentante per la sicurezza (vedi art. 18 d. lg. n. 626 del 1994) il potere di controllare in azienda l’adozione delle misure di prevenzione, e di agire presso le autorità competenti quando dette misure non vengano adottate ovvero non si rivelino idonee, non esclude che i lavoratori ‘uti singuli’ possano agire in giudizio per ottenere l’adozione da parte del datore di lavoro delle misure idonee a tutelare la propria integrità fisica”. Con il richiamo, seppure incidentale, all’articolo 9 in rapporto alle specifiche norme sulla sicurezza, la Suprema Corte conferma l’attuale vigenza della norma statutaria.

Più recentemente ed esplicitamente la Corte d’appello di Venezia ha chiarito che “l’art. 9 St. lav. conferisce alla Rsu diritti di controllo e di promozione volti al miglioramento delle condizioni di lavoro in un senso più ampio rispetto alle funzioni strettamente riferite alla sicurezza del lavoro proprie del Rls previsto dal d. lg. 19 settembre 1994 n. 626, il quale, avendo la finalità di rafforzare gli strumenti di tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro e non di comprimere i diritti previsti dallo statuto dei lavoratori, non ha determinato l’abrogazione tacita dell’art. 9 St. lav.” (sentenza 6.4.2011).

L’articolo 9 è quindi ancora presente nel nostro ordinamento, ma pochi se ne accorgono. Eppure oggi sarebbe davvero il caso di farlo rivivere. Perché? Perché il susseguirsi di incidenti sul lavoro, e la constatazione che le norme di prevenzione non vengano affatto rispettate, dimostrano che l’esteso impianto legislativo, fino al più minuto aspetto dell’attività produttiva, non funziona. Non funziona l’apparato ispettivo esterno, ma non funziona neppure il controllo interno degli stessi lavoratori.

Il controllo interno, incentrato sulle Rsa e sul Rls, presuppone una vita fisiologica delle aziende che non esiste più in gran parte del mondo produttivo. Infatti, pur prescindendo dal lavoro nero e sommerso, che pure rappresenta una fetta importante della realtà imprenditoriale soprattutto in certi settori, quasi tutti i lavoratori, almeno nel settore privato, sono precari e quindi ricattabili.

Le ragioni sono note: il frazionamento delle imprese in unità sempre più piccole, l’abuso di appalti e subappalti, disciplinati da contratti collettivi sottoscritti da sindacati ‘pirata’, l’utilizzo sempre più esteso di contratti temporanei, e l’attuale normativa, dalla legge Fornero al Jobs Act, che rende difficilmente sanzionabile il licenziamento illegittimo.

Questo comporta da un lato che quasi nessuno protesta individualmente per la violazione delle norme di sicurezza, dall’altro che vi è pochissimo spazio per i sindacati, perché pochi lavoratori hanno il coraggio di svolgere attività sindacale o anche solo iscriversi ad un sindacato, sfidando la reazione del datore di lavoro (sul rapporto tra precarietà ed infortuni vedi il mio articolo “Come il diritto del lavoro causa l’insicurezza dei lavoratori”, in Critica del diritto, 2-2023, p. 133).

Quindi il controllo interno non funziona, né sul piano individuale, né su quello collettivo. Sul piano collettivo lo spazio di manovra degli organi interni, che la legge ha predisposto per la sicurezza sul lavoro, si è ridotto sempre di più. Infatti la presenza delle Rsu, consentite nelle unità produttive con più di 15 dipendenti, si è ridotta a causa del frazionamento del processo produttivo, anche grazie all’ampio uso, consentito dalla legge, di appalti e somministrazioni.

Quanto al Rls, se è vero che è previsto anche nelle piccole aziende, rischia tuttavia di diventare una rarità, sia per la ricattabilità di cui si parlava, che sconsiglia i lavoratori ad assumere questo ruolo, sia per il recente orientamento giurisprudenziale, che addossa addirittura al Rls la responsabilità per gli infortuni (Cassazione 38914/2023).

Sempre più spesso quindi il Rls non viene eletto dai lavoratori. La legge prevede, in questo caso, che i relativi poteri siano assunti dal responsabile territoriale (Rlst) o del sito produttivo (Rlssp), che però non sembrano essere presenti in tutti i territori e per tutte le categorie.

Questi responsabili esterni avrebbero il potere di accedere sul luogo di lavoro per verificare il rispetto delle misure di sicurezza, ma secondo le modalità e il preavviso previsti dagli accordi sindacali. Quindi le organizzazioni dei datori di lavoro possono condizionarne le modalità e, comunque, la previsione di un preavviso rende spesso inutile l’accesso. In ogni caso sarebbe interessante sapere quanti accessi siano stati tentati e consentiti. Peraltro, in caso di rifiuto, il responsabile esterno può solo comunicarlo “all’organismo paritetico o, in sua mancanza, all’organo di vigilanza territorialmente competente”. Come si vede, si tratta di strumenti ‘spuntati’, poco utili nelle realtà di cui si parla sui giornali in occasione di infortuni.

Allora perché non provare a rivitalizzare l’articolo 9 dello Statuto, immaginando altre modalità per le aziende più refrattarie (una volta chiarito che le modalità previste dal T.U. costituiscono solo uno dei possibili sistemi di esercizio del diritto di controllo)?

Va precisato al riguardo che il diritto di controllo previsto dalla norma statutaria non è condizionato dal consenso del datore di lavoro o da accordi sindacali. La Cassazione ha infatti chiarito che si tratta di una “norma precettiva che consente l’esercizio del diritto collettivo (dei lavoratori come comunità aziendale) di controllo in ordine all’adempimento degli obblighi di prevenzione da parte del datore di lavoro, senza il preventivo consenso di questi e indipendentemente da accordi fra le parti, o, in difetto dei medesimi, da determinazioni giudiziarie circa il contenuto e le modalità di tale esercizio, non risultando violate le norme costituzionali che tutelano concorrenti diritti dell’imprenditore, il quale conserva il potere di opporsi – con conseguente necessità dell’intervento del giudice, diretto a vagliare l’ambito della pretesa vantata dai lavoratori – a forme illegittime dell’esercizio stesso, quali sono quelle che appaiono idonee a pregiudicare siffatti diritti (organizzativi, di riservatezza dei processi industriali, di domicilio, ecc.), ovvero esorbitino dalle finalità, di tutela della salute e di sicurezza dei luoghi di lavoro, per le quali è riconosciuto il suddetto diritto di controllo” (sentenza 4874/1982).

Va anche precisato che l’accesso sul luogo di lavoro per le necessarie verifiche deve essere consentito anche a soggetti esterni alla comunità aziendale. Ancora la Cassazione ha infatti chiarito che “con l’articolo 9 dello Statuto dei lavoratori, che prevede il diritto dei lavoratori di controllare, mediante loro rappresentanze, la applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica, il legislatore ha inteso riferirsi a rappresentanze tratte dall’interno stesso delle comunità di lavoro e di rischio interessate a valersi dei diritti in questione. Ciò non esclude, peraltro, il potere dell’organo rappresentativo dei gruppi dei lavoratori interessati di ricorrere, al fine di esercitare i diritti in questione, all’assistenza di tecnici e di esperti di varie discipline, esterni alle comunità di lavoro, ove ciò sia consentito dagli accordi interni fra lavoratori e rappresentanza” (sentenza 6339/1980).

Va precisato che la norma non dice che “le rappresentanze” debbano essere costituite da lavoratori interni all’azienda (e, d’altra parte, la figura del Rlst lo conferma), né prevede alcuna forma e modalità del mandato. Non è escluso, quindi, che sindacalisti, tecnici o esperti esterni accedano sul luogo di lavoro in “rappresentanza” dei lavoratori dell’azienda, anche senza alcun preavviso, non richiesto dall’articolo 9.

Certo, a fronte di un possibile rifiuto del datore di lavoro, vanno studiate modalità di esercizio dell’accesso, che rendano il rifiuto illegittimo e suscettibile di reazione efficace. Non ho una precisa soluzione pronta, ma da qui credo sia possibile partire per discuterne.

 

 
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