La strage di Casteldaccia - di Antonio Bevere

La strage di Casteldaccia ha portato in maggiore evidenza il particolare pericolo che corrono i lavoratori negli ‘ambienti confinati’, luoghi parzialmente o totalmente chiusi, in cui non è prevista la quotidiana e costante presenza delle persone, fatta salva la necessità di effettuare lavori specifici, quali la pulizia, l’ispezione, la manutenzione, la riparazione. In questi locali vi è il pericolo di esalazioni di venefici gas letali, infatti a Casteldaccia risulta che il soffocamento è stato causato da idrogeno solforato, derivante dalla fermentazione di melmosi residui organici accumulati nella vasca della fogna, in misura dieci volte superiore al limite sopportabile.

Dallo stato attuale delle indagini non risulta che gli operai fossero protetti dall’apposita strumentazione e comunque nessuno aveva indossato le mascherine e i dispositivi previsti come obbligatori dalla normativa sulla sicurezza. Le indagini accerteranno se le vittime avessero la formazione culturale e professionale prescritta per gli addetti ad operazioni di estremo rischio per la propria incolumità. In ogni caso è di prioritaria esigenza conoscere il tipo di contratto che li vincolava con l’impresa - assegnataria dell’appalto per la manutenzione della vasca fognaria - o con l’impresa subappaltatrice.

Fin d’ora è indubbio che gli esperti lavoratori conoscevano la pericolosità dell’ambiente in cui erano obbligati a svolgere le mansioni assegnate. I dati Inail e Anmil attestano 62 decessi - nel periodo 2005-2018 in ambienti confinati (cisterne, serbatoi, vasche di raccolta, silos), causati, per il 66,7%, da esalazioni di gas asfissianti.

Gli investigatori, i magistrati requirenti e i cittadini devono a questo punto porsi alcuni interrogativi: i protagonisti della tragedia di Casteldaccia – deceduti e sopravvissuti - mentre consapevolmente si avviavano o scendevano in uno di questi mortali ambienti di lavoro, erano in condizioni di piena libertà di autodeterminazione, oppure si trovavano in una situazione di necessità che la soverchiava e li costringeva ad accettare le condizioni del datore di lavoro, anche a rischio della propria incolumità? Erano stati indotti a concordare una retribuzione non consona alla difficoltà della loro opera e comunque la paga era inferiore o pari a quella stabilita dai contratti collettivi nazionali e territoriali? Era stato predisposto un ambiente di lavoro rispettoso delle generali e specifiche norme sulla sicurezza e sull’igiene, idoneo a prevenire lesioni, morte, malattia professionale?

In altri termini, le indagini dovranno accertare se la parte datoriale abbia o meno costretto gli addetti alla manutenzione del sistema fognario, approfittando del loro stato di necessità, a prestazioni lavorative in un ambiente confinato, intrinsecamente pericoloso (vasca della fogna comunale), a condizioni economiche e ambientali assolutamente vietate. Le conclusioni delle indagini potrebbero rispondere a questi interrogativi in modo da delineare o escludere un quadro accusatorio legittimante la formulazione dell’imputazione e la pronuncia di condanna in relazione al reato di riduzione o mantenimento in servitù, ex art. 600 c.p., modificato dalla legge 228/2003.

Gli elementi costitutivi della riduzione e del mantenimento in servitù sono stati esposti con insuperata chiarezza dalla Suprema Corte (sezione III, n. 2841 del 26.10.2006, Rv 236022). Il reato è da ritenersi abituale, “[…] giacché per la integrazione del medesimo è necessaria la reiterazione nel tempo di più condotte della stessa specie: tanto si desume dalla stessa definizione dell’evento come stato di soggezione “continuativa” accompagnato da una pluralità di prestazioni del soggetto passivo”.

Dalla abituale reiterazione di condotte della stessa specie del datore di lavoro deriva quindi per il subordinato un duplice evento così articolato: a) un permanente stato di soggezione, incompatibile con la possibilità di determinarsi con la dovuta libertà nelle scelte esistenziali riguardanti lo scambio prestazioni/retribuzione; b) condizioni sproporzionatamente svantaggiose sul piano economico e psicologico e conseguenti prestazioni lavorative non dovute nell’‘an’, nel ‘quantum’, nel ‘quando’ (Cass. sez. V n. 14591 del 4.2.2014, Riv. 262541). 

Al di là di questo aspetto penalistico della genesi della strage di Casteldaccia, va esaminata l’eventuale precarietà del rapporto di lavoro delle vittime. Dai recenti dati forniti dall’Inail alla commissione Bilancio della Camera, risulta che nel periodo 2018-2022 “nei contratti a tempo determinato, gli incidenti mortali sul lavoro hanno un’incidenza che è pari al doppio di quella che si registra nei contratti a tempo indeterminato: “8,98 ogni 100mila lavoratori, nel primo caso contro il 4,49 nel secondo” (on. Maria Cecilia Guerra, il manifesto 12.4.2024).

Come già detto, il lavoratore precario difficilmente lamenta la violazione delle regole di sicurezza per timore di essere licenziato o non riconfermato. La precarietà è un fattore di disciplina dei lavoratori e di adeguamento alle regole aziendali e alle mutevoli strategie dell’impresa, che impongono flessibilità di mansioni, di orari, di localizzazione.

Altro strumento di comando e di limitazione della libertà di autodeterminazione del dipendente è il licenziamento, che, grazie alla riforma Fornero e al Jobs Act, è sanzionato, in caso di illegittimità, con una somma di denaro anche nelle ipotesi di lavoratori stabili. Sotto questo profilo è pienamente condivisibile l’iniziativa di organizzare un referendum abrogativo delle norme antioperaie introdotte dal governo Renzi.

Il ricorso ai mezzi di difesa e di progresso sociale previsti dalla Costituzione può essere integrato dall’impiego di strumenti di legittima autotutela. Romano Canosa richiama nella sua autobiografia (“Storia di un pretore”, Einaudi, Gli Struzzi 161, pag. 41), la controversia promossa dall’indagine di una commissione di tecnici (medici, ingegneri, ecc.) sulle condizioni di lavoro nella cartiera Binda: “Per far ciò aveva fatto riferimento all’art. 9 dello Statuto dei lavoratori che prevede appunto la possibilità di costituire tali commissioni. L’azienda si era opposta sostenendo che era sufficiente l’intervento dell’Enpi (Ente Nazionale Prevenzione Infortuni). Ne era derivato un ricorso in Pretura. Poiché le resistenze dell’azienda nei confronti della costituenda commissione erano pretestuose …. detti ragione ai lavoratori e ordinai alla Binda di far entrate in fabbrica la commissione voluta dagli operai”.

L’articolo 9 dello Statuto dispone: “I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica” (su questo argomento potrà meglio soffermarsi in un prossimo articolo il collega civilista Giovanni Cannella).

Nel concludere queste brevi e amare riflessioni sulla tutela dell’incolumità fisica e sulla dignità morale dei lavoratori, mi permetto di richiamare l’attenzione su un altro strumento di autotutela costituito dal sapere, dalla conoscenza approfondita dei propri diritti e degli altrui doveri.

Con l’efficace assistenza del sindacato e con le azioni di garantismo civile e penale, può iniziare la diffusione del ‘sapere’ sui dolorosi e umilianti segnali trasgressivi della riduzione in servitù, sulla reale punizione dei trasgressori. Il bracciante agricolo senza contratto, il dipendente a tempo determinato ma ad orario illimitato, l’edile e il metalmeccanico ad alto rischio ma a basso salario, l’addetto alla manutenzione e alla pulizia di un sistema fognario e di altri ambienti confinati infestati di esalazioni di gas letali, lo studente costretto anticipatamente ad ‘esordire’ nel mondo degli ‘sfruttati’ e degli infortunati: tutte le innumerevoli vittime della ‘padronale fantasia’ potranno più prontamente rendersi conto dei propri diritti economici, fisici e politici, potranno più efficacemente reagire e attivare gli strumenti di difesa previsti dall’ordinamento giuridico, respingere lo stato di ‘servi’ del capitalismo.

In questa situazione di eterna emergenza, di criminalità economica, di crescente numero di morti tra le fila di chi pacificamente vuol solo lavorare e sopravvivere nella Repubblica italiana, nasce l’esigenza di divulgare in linguaggio corrente le tipizzazioni dello sfruttamento, delle pericolosità delle mansioni, le concrete esperienze dell’attivazione degli strumenti di difesa previsti dalla legge e principalmente dalla Carta Costituzionale.

È quindi primaria cura dei giuristi e del sindacato rendere consapevole il lavoratore delle regole e delle prassi idonee alla tutela del suo diritto alla salute e all’incolumità personale, almeno a fronte di violazioni evidenti e pericolose, di facile denuncia e di tempestivo e reale intervento della magistratura.

 

 
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