Pochi eventi nella storia repubblicana italiana hanno assunto una valenza tanto emblematica e straordinaria da assurgere, nell’interpretazione degli analisti, ad autentico spartiacque fra un prima e un dopo, come il biennio operaio 1969-70. La centralità del conflitto, culminato nell’ “autunno caldo”, offrirà una testimonianza per molti versi unica, per intensità e durata, in virtù di un protagonismo delle masse come solo di rado si verifica nella storia di una nazione. Al punto da indurre vari osservatori a instaurare un parallelo fra quel biennio e pochi non meno cruciali altri, come quello del 1943-45 e finanche del 1920-21. Lo Statuto dei lavoratori ne sarà, il 20 maggio 1970, l’approdo normativo più celebre e rappresentativo.
Fin dal suo III Congresso del 1952, a Napoli, la Cgil chiedeva una “Carta dei diritti dei lavoratori”, volta a riconoscere l’esercizio dei diritti civili e politici, anche nei luoghi di lavoro. L’obiettivo, si sarebbe detto più avanti, era quello di “fare entrare la Costituzione in fabbrica”. Il suo iter non fu semplice, e non soltanto a causa della prematura morte del ministro del Lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, nell’estate del ’69, quando il Ddl era ancora in discussione.
Obiezioni e resistenze provenivano da un variegato fronte di organizzazioni e interessi. Sorvolando su quelle, scontate, del mondo datoriale e liberal-conservatore, ricordiamo come il Pci si opponesse a causa dell’esclusione degli organismi politici dai luoghi di lavoro; la Cisl per via della sua programmatica ritrosia verso la legge, già manifestata nel ’66, in tema di licenziamenti individuali; la sinistra extraparlamentare per il timore di imbrigliare e cristallizzare rapporti di forza che, allora, dovevano apparire come inesauribilmente progressivi.
Alla fine lo Statuto venne approvato (legge n. 300) e si trattò, come ha scritto Gian Primo Cella, dell’ “atto di ‘ammissione’ (se non di ‘promozione’) delle relazioni industriali più significativo messo in atto nei sistemi liberal-democratici”. Articoli come il 18 e il 28 doteranno i lavoratori e il sindacato italiano di alcune fra le misure più intensamente garantiste del panorama internazionale.
Lo Statuto, che nel disegno del suo maggiore “ideologo” e “padre”, Gino Giugni, si ispira al rooseveltiano Wagner Act del 1935, costituisce un modello di legislazione di sostegno, che intende assorbire i dati dell’esperienza extra-costituzionale dei rapporti sindacali. Un modello promozionale e ausiliario, di matrice sindacale-contrattuale, in cui l’‘ordinamento intersindacale’ si dispiega in relativa autonomia dalla giuridificazione statuale, e in cui le parti sociali si auto-regolano, producendo norme per poi curarne autonomamente l’applicazione.
Fra le realizzazioni più originali e durevoli del biennio 1969-70 vi è indubbiamente il suo modello di rappresentanza, mutuato dai neonati consigli di fabbrica, col loro modello di democrazia semi-diretta. Canale “unicissimo” (Accornero), per emanazione e funzioni, interpreta l’unità della classe nei luoghi di lavoro, e con essa il sapere operaio, attraverso l’inedito nesso quanti-qualitativo che instaura fra delegato e gruppo omogeneo, già proficuamente sperimentato nella valutazione dei rischi e sulla saturazione fra tempi e metodi.
Lo Statuto prende atto di questa nuova situazione; ignora, evidentemente, l’impianto predisposto nella seconda parte dell’art. 39 e, senza qualificare giuridicamente il sindacato, ne dispone una promozione selettiva nell’impresa, intorno al criterio della “maggiore rappresentatività” (art. 19). Essa sola consente l’accesso alle importanti prerogative disposte nel titolo III. Senza il bisogno di ulteriori verifiche oggettive e senza la pretesa di fornire una legge sindacale organica, ad esempio sul terreno della definizione del modello giuridico di sindacato ex art. 39 della Costituzione, ma valorizzando al massimo grado il solo primo comma, lo Statuto presuppone il pluralismo (dei sindacati rappresentativi) ma non lo organizza. Disegno del tutto incontroverso, in quella fase di assoluto primato del sindacalismo confederale storico, e per giunta in uno dei suoi momenti più alti di convergenza, ma destinato a rivelarsi un serio vulnus in anni di caotica proliferazione di sigle, come l’attuale.
Al tema della rappresentanza si affianca, svolgendolo conseguentemente, quello dei ‘diritti sindacali nei luoghi di lavoro’. Non solo il titolo III, relativo all’attività sindacale (Rsa, assemblea, referendum, affissioni, trattenute, locali, nonché – fondamentale – il divieto di attività anti-sindacale), ma anche il titolo I, sulla libertà e dignità del lavoratore (di pensiero e parola, sul ricorso alle guardie giurate, di disciplina degli impianti audiovisivi, di imparzialità negli accertamenti sanitari, di procedimentalizzazione delle sanzioni disciplinari, di divieto di indagini sulle opinioni ai fini dell’assunzione e nello svolgimento del rapporto di lavoro, il divieto di ‘jus variandi’ e il diritto alla qualifica e alle mansioni per le quali si è stati assunti), e il titolo II, sulla libertà sindacale, collettiva. A partire da quella di costituire e aderire, o non aderire, ad associazioni sindacali, il divieto di atti discriminatori di qualunque tipo da parte del datore, come anche di costituire sindacati di comodo, le tutele supplementari per i delegati e – come nel caso del divieto, con sanzioni, di attività anti-sindacali (art. 28). E con un’altra norma di chiusura del sistema; quella del diritto alla reintegra in caso di licenziamento ingiustificato (art. 18).
Si tratta di un elenco in grado di conferire al nostro Statuto il profilo di un documento straordinario, nella storia comparata del diritto sindacale, capace a sua volta di influenzare la legislazione di altri ordinamenti, come nel caso, sin dal titolo, dello “Estatuto de los Trabajadores” spagnolo del 1980.
Si potrebbe rilevare quanto di quell’impianto sia stato poi sviluppato nella legislazione successiva – spesso di origine comunitaria, come su salute e sicurezza, diritto anti-discriminatorio, privacy – o al contrario, svuotato o sminuito, dal susseguirsi di interventi volti ad allentare quel regime vincolistico che, già da subito, verrà imputato allo Statuto dai settori più liberisti e conservatori del paese.
Basti solo evocare diritti come quello alla reintegra (art. 18) o il divieto di ‘jus variandi’ (art. 13). Ma anche all’eterogenesi dei fini, rivelato dalla scelta – in quel caso invocata da sinistra – di abrogare una parte essenziale dell’art. 19 (lett. a), sulla maggiore rappresentatività (presunta). O a come taluni diritti appaiano oggi inadeguatamente formulati, per poter far efficacemente fronte alle nuove sfide del management attraverso algoritmi, come nel caso dei controlli a distanza. O ancora, a come la soglia dei 15 dipendenti, per poter eleggere rappresentanze nei luoghi di lavoro e accedere al titolo III (art. 35), si sia rivelata troppo alta, per un paese dove la dimensione aziendale tipica è assai più bassa. E che tale sarebbe diventata, secondo alcuni, proprio per aggirare il duro scoglio sindacale, emerso nei luoghi di lavoro, grazie alle previsioni dello Statuto.
Vi è soprattutto il dato, sempre più drammatico, di quanti risultano esclusi da quei diritti; vuoi in virtù del loro rapporto atipico di impiego, o a causa delle dimensioni molto piccole della propria unità lavorativa. Le varie proposte che in questi anni si sono succedute per un nuovo ‘Statuto dei lavori’, fino alla ‘Carta universale dei Diritti dei lavoratori della Cgil’, recano più o meno tutte questa consapevolezza e questa ambizione. Fino ai quattro referendum, su cui è in corso una raccolta di firme, con cui la Cgil mira ad arginare la precarietà dilagante di questi anni, incluso un sostanziale ritorno all’originale art. 18.
La legge 300/70 ha tuttavia mantenuto vivi alcuni dei tratti che ancora oggi contraddistinguono il nostro modello di rappresentanza, e che ritroveremo echeggiati nel Protocollo del 1993, nella legge sulla rappresentanza nel pubblico impiego del 1997, fino al Testo Unico del 2014, su rappresentanza e contrattazione collettiva, da più parti ritenuto come il nucleo intorno al quale – interrompendo decenni di astensionismo legislativo – sarà necessario, e non più solo opportuno, predisporre una nuova disciplina normativa.
Si tratta di quella “fase due della legislazione di sostegno”, di fatto sempre rinviata e mai realizzata, in grado oggi di sanare il sistema delle troppe disfunzioni manifestate in questi anni, preservando e rilanciando ruolo e funzioni di un sindacalismo autenticamente rappresentativo, senza con ciò comprimere autoritariamente la libertà e il pluralismo sindacale.
Ad oltre mezzo secolo di distanza resta, in definitiva, il valore di un documento legislativo che, proprio perché tale, ha potuto resistere più a lungo e meglio ad una offensiva che, nel frattempo, ha investito varie parti di quell’edificio, incluse alcune delle sue colonne portanti. Tornarvi ancora una volta costituisce un omaggio doveroso per mantenere viva la memoria di uno dei frangenti più significativi e qualificanti della nostra storia nazionale. E con essa, auspicabilmente, la coscienza civile di cui ogni democrazia necessita per alimentare – insieme al ricordo del passato – la speranza di un futuro che da ciò possa ricavarne moniti e insegnamenti. A partire dal significato che la partecipazione e la lotta per la dignità e l’emancipazione di tutti rappresentano valori universali ed eterni, da trasmettere fra le generazioni, alla stregua di una religione laica e repubblicana, a prescindere dalle circostanze più o meno irripetibili che le produssero.