- Redazione
- 2021
- Numero 20 - 2021
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La Cgil con l’ordine del giorno dell’assemblea generale, dopo un confronto positivo, difficile e articolato, ha confermato il giudizio complessivamente negativo sulla bozza di legge di bilancio, già peraltro inviata alle istituzioni europee.
Nell’odg, tra altro, si “dà mandato alla segreteria nazionale, in ogni caso, di valutare e prevedere ulteriori mobilitazioni senza escludere iniziative e forme di lotta di carattere generale”. Ciò significa che la Cgil indica la necessità e la possibilità di giungere allo sciopero generale, preferibilmente unitario, se non ci fossero risposte certe alle richieste delle piattaforme unitarie.
La mobilitazione e la possibilità di realizzare uno sciopero nazionale, di cui c’è bisogno, passano per i luoghi di lavoro; altrimenti non c’è risposta efficace a un presidente del Consiglio e a un governo che stanno utilizzando le risorse del Pnrr in continuità con il passato.
Occorre, finalmente, realizzare in tempi brevi un vero e forte passaggio nei luoghi di lavoro, con una campagna di assemblee diffuse per ascoltare e capire cosa è avvenuto nella testa e nel cuore di chi rappresentiamo, per coinvolgere, conquistare il consenso e la partecipazione sulle nostre rivendicazioni, per informare anche sugli obiettivi raggiunti pur in questa terribile pandemia.
Senza nuovi rapporti di forza, senza scioperi articolati per categorie e territori e lo sciopero nazionale, non saremo realmente ascoltati e non strapperemo avanzamenti al governo.
Come usciremo dalla pandemia e come costruiremo il nostro futuro e quello delle nuove generazioni è tutto da conquistare. Siamo in una situazione complicata, difficile, senza sponde politiche e con rapporti di forza sfavorevoli al lavoro. Un Paese con tristi primati (evasione e elusione fiscale, morti sul lavoro, lavoro nero e schiavismo, salari da fame, precarietà di vita e di lavoro per giovani e donne, diritti negati) che sta scivolando pericolosamente verso una democrazia autoritaria e presidenziale.
Modificare l’agenda politica e imporre le nostre richieste generali e particolari è difficile, ma la lotta per il cambiamento è solo all’inizio, la strada sarà lunga e impegnativa. Dovremo tenere insieme il particolare dentro allo scontro generale, cercare di far uscire dal rischio di passività e di spinte corporative la nostra rappresentanza.
Dobbiamo recuperare consenso, fiducia e speranza verso l’azione collettiva e il sindacato. Verso la Cgil, l’organizzazione più esposta e non a caso bersaglio di un attacco eversivo e politico, per il suo ruolo e la sua rappresentatività. Sulla Cgil cade il peso maggiore per le aspettative e le speranze diffuse, non solo tra i nostri iscritti, che si fondano sulla consapevolezza che siamo sempre in campo, come abbiamo visto nella partecipata manifestazione antifascista il 16 ottobre a Roma. Occorre essere realisti, non rassegnati, consapevoli e autonomi dal governo e dalle forze politiche che lo sostengono.
Come diceva Gramsci, non c’è nulla di determinato, nulla di ineluttabile, gli attori sociali e le classi sono sempre in campo, “ogni situazione sociale è il risultato di un rapporto di forza aperto e in divenire”. Siamo sempre nello scontro tra interessi e poteri. Si compete, si lotta nel libero mercato, sottraendo potere e egemonia culturale al potere politico, economico-finanziario, a un capitalismo “onnivoro” del pianeta e delle vite, dei diritti e del lavoro delle persone. Come sempre, al lavoro e alla lotta.
Come ha osservato Marco Bersani su ‘il manifesto’, il disegno di legge sulla concorrenza e il mercato – ennesima mossa neoliberista del governo “dei migliori” - “è un un nuovo bastimento carico di privatizzazioni”. Impossibile dar torto allo storico portavoce di Attac, visto che il provvedimento imbastito dall’esecutivo di Mario Draghi unisce tutti i servizi pubblici locali. Che nei piani del governo diventeranno di esclusiva competenza dello Stato, separandone però la gestione dal controllo. Con solo quest’ultimo che resterà nelle mani del pubblico. Mentre la quotidiana attività economica, in altre parole gli affari e i conseguenti profitti, verranno indirizzati verso le imprese private. “Poi c’è il colpo da manuale – annota Nicola Fratoianni a nome delle sinistre di opposizione - se la gestione è affidata al privato nessun obbligo, solo una relazione annuale. Ma se la gestione è pubblica invece deve essere giustificato perché non si dà in mano ai privati; si deve informare l’Autorità garante della concorrenza e del mercato; si dovranno monitorare i costi, e rinnovare nel tempo le giustificazioni per non volerla concedere ai privati”.
In definitiva si torna sempre lì, alla strategia che i governi di centrosinistra avviarono, tra la fine dei ‘90 l’inizio del nuovo secolo, per espropriare i servizi pubblici gestiti fino ad allora dai Comuni, anche in modo consortile, perché universalistici: dai rifiuti ai trasporti, fino al gas. Una strategia che gli allora Ds e Margherita, “genitori” dell’attuale Pd, ampliarono fino a comprendervi il servizio idrico integrato. Insomma l’acqua.
Di fronte alla volontà popolare espressa con il vittorioso referendum per la ripubblicizzazione del 2011, che non comprendeva solo il servizio idrico ma tutte le public utilities, per dieci anni i governi che si sono succeduti (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni ecc.) hanno fatto finta di nulla. Lasciando all’attuale governo “dei migliori” il lavoro sporco di oggi.
Al solo il minimo accenno alla mobilitazione, di fronte ad una legge di bilancio che non risponde al necessario cambiamento sociale, i soliti giornaloni hanno riaperto il coro contro un sindacato che sarebbe attardato a difesa dei “privilegi” degli anziani a scapito del futuro dei giovani. Puntualmente ritornano i refrain sulla intangibilità della legge Fornero: costringere i lavoratori a rimanere in azienda fino a 67 anni – con un tracciato già designato fino ai 70, in corrispondenza all’auspicato aumento dell’aspettativa di vita – chissà come darebbe miracolose certezze di pensione ai più giovani...
Mentono sapendo di mentire, sia sulla presunta non sostenibilità finanziaria del sistema, sia sulla durata della vita lavorativa rispetto agli altri paesi europei, sia sul destino previdenziale dei giovani. Che è grigio, se non nero. Ma non perché i loro “padri” andrebbero in pensione troppo presto, bensì perché, proprio da quando la “riforma” Dini ha introdotto per gli assunti da gennaio 1996 il sistema contributivo, i vari governi hanno stabilito sempre maggiori “flessibilità” del mercato del lavoro, cioè condannato giovani e meno giovani ad una precarietà di lavoro e di vita, che si riflette inesorabilmente in pensioni sempre più povere, oltre che sempre più lontane.
E infatti, mentre politici e opinionisti attaccano il sindacato come se fosse il promotore del sistema delle “quote”, la principale rivendicazione della piattaforma unitaria, da anni presentata al governo di turno, è la pensione contributiva di garanzia per lavoratrici e lavoratori del sistema contributivo.
Sono fin troppo evidenti le conseguenze negative di un lavoro sempre più precario sulle attese pensionistiche e la pensione di garanzia risponde alla necessità di stabilire l’equità intergenerazionale, in modo che i lavoratori di oggi, una volta pensionati, ricevano un trattamento comparabile con quello attuale. Si tratta di una soluzione diversa dall’integrazione al minimo, poiché collegata agli anni di lavoro e ai contributi versati, e in grado di valorizzare, con contribuzione figurativa, i periodi di discontinuità lavorativa, di formazione, di basse retribuzioni, e il lavoro di cura, quasi sempre a carico delle donne – che non a caso hanno in media pensioni molto più basse degli uomini.
In questo quadro, particolare attenzione è riservata anche alle pensioni ai superstiti (coloro che ricevono la pensione di un lavoratore deceduto) o di invalidità. Per questo tipo di pensioni, infatti, il calcolo contributivo non prevede forme di solidarietà, come ad esempio l’integrazione al trattamento minimo, e quindi non tiene conto nemmeno delle fragilità individuali.
La riforma strutturale del sistema previdenziale, per superare la legge Fornero, riguarda insomma soprattutto le donne, penalizzate dal forte aumento del requisito di età per accedere alla pensione di vecchiaia, e i giovani penalizzati da un mercato del lavoro sempre più precario.
In questo ambito si colloca anche la rivendicazione di un ritorno alla flessibilità in uscita, che in un sistema contributivo definisce di per sé l’equilibrio tra anni di contribuzione e ammontare dell’assegno pensionistico. L’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita è uno schema che va cambiato, innanzitutto perché non distingue le condizioni soggettive dei lavoratori e la diversa gravosità dei lavori, costituisce un obbligo insensato a raggiungere un’età anagrafica rigida e prestabilita per tutti, costituisce un “tappo” per l’accesso al lavoro dei più giovani, impedisce la redistribuzione dei benefici sociali derivanti dall’allungamento della vita. L’obiettivo, quindi, non è inseguire alcuna quota, ma restituire al sistema previdenziale le flessibilità proprie di un sistema contributivo.
A questo nucleo di modifiche strutturali dell’iniqua legge Fornero si aggiungono le rivendicazioni per chi è già in pensione, il cui potere d’acquisto è sempre più ridimensionato, senza che il “governo dei migliori” si sia degnato di prestare la minima attenzione. Le richieste dei sindacati pensionati e delle confederazioni vanno dall’estensione della quattordicesima (oggi limitata ai pensionati da lavoro con un reddito non superiore al doppio del trattamento minimo) alla parità di trattamento fiscale (se le pensioni fossero tassate come i redditi da lavoro dipendente, i pensionati pagherebbero meno tasse per circa 13 miliardi sui 57 totali del loro gettito), all’adeguamento all’andamento dell’inflazione. Il sindacato chiede che si torni al meccanismo vigente fino al 2011, più efficace di quello attuale, e che sia ampliata la fascia di reddito coperta integralmente dall’inflazione, oggi ferma a quattro volte il trattamento minimo, circa 2.000 euro lordi mensili.
Questi sono i chiari e noti obiettivi sul versante previdenziale che - uniti alle rivendicazioni su occupazione, ammortizzatori, equità fiscale, difesa e ampliamento del welfare, a partire dalla sanità pubblica – caratterizzeranno la necessaria mobilitazione delle prossime settimane.
Il contratto nazionale di lavoro del personale della scuola è scaduto ormai da tre anni (per la precisione due anni e undici mesi) e, nonostante l’enorme ritardo accumulato, la strada per il rinnovo appare ancora molto in salita. L’estremo ritardo non dipende tanto dalla complessa situazione che sta attraversando il Paese a causa dell’emergenza sanitaria, ma dal fatto che le risorse stanziate nelle leggi di bilancio relative al triennio contrattuale di interesse (ovvero 2019-2020-2021) sono ritenute unanimemente insufficienti e inadeguate da tutti i sindacati di categoria.
I finanziamenti disponibili a tutt’oggi consentirebbero un aumento stipendiale a regime del 3,78% (al netto dell’elemento perequativo, ovvero di quella voce retributiva inserita nell’ultimo contratto a favore dei salari più bassi e che adesso occorre necessariamente stabilizzare). Per docenti e Ata la percentuale indicata significherebbe un aumento medio mensile di circa 85 euro, una cifra molto lontana dalle aspettative della categoria che si è vista promettere da tutti i ministri e governi che si sono succeduti negli ultimi anni aumenti stipendiali che consentissero non solo di avvicinarsi alle retribuzioni dei colleghi europei (che sono mediamente più alte di oltre il 15%), ma anche a quelle degli altri lavoratori dei settori pubblici con equivalente titolo di studio. Il settore scuola, infatti, nell’ambito della Pubblica amministrazione è quello che presenta la più alta concentrazione di personale laureato (oltre il 50%), a cui però corrisponde la media retributiva più bassa di tutto il comparto pubblico.
Il rinnovo contrattuale avrebbe anche la funzione di valorizzare il ruolo sociale e l’importanza della scuola per tutto il Paese, riconoscendo l’impegno dimostrato in questi difficili mesi di pandemia dai docenti e dal personale tecnico-amministrativo. In questo ultimo anno e mezzo, infatti, è stata assicurata la continuità dell’attività scolastica e dell’azione educativa, in presenza come a distanza, nonostante le condizioni di lavoro e di sicurezza abbiano lasciato - e ancora lascino - molto a desiderare. In molte scuole si continua ad operare in condizioni critiche a causa del sovraffollamento delle classi o della inadeguatezza dei locali, per cui la circolazione del virus trova pochi ostacoli - specie tra gli alunni del primo ciclo che non possono vaccinarsi - nonostante il personale scolastico sia ormai completamente vaccinato.
Eppure lo scorso maggio era stato sottoscritto, tra il ministro dell’Istruzione per conto del presidente del Consiglio e i sindacati confederali, un apposito patto con l’impegno a risolvere le tante problematiche della scuola, e tra queste anche quella del riconoscimento e della valorizzazione economica del personale scolastico. Senonché la proposta di legge di bilancio appena varata dal governo sembra tradire ogni aspettativa, nel senso che le risorse messe in campo non consentono non solo di accorciare la distanza stipendiale rispetto ai colleghi europei, ma neanche di garantire quell’aumento medio a “tre cifre” che è alla base delle rivendicazioni della Flc Cgil. Senza contare che per i docenti si prefigura anche la reintroduzione di un sistema premiale e discrezionale che richiama quello tentato alcuni anni fa dal governo Renzi (il cosiddetto “bonus” docenti), che è stato già aspramente contrastato e battuto dalla categoria.
Risulta pertanto evidente la necessità di avviare quanto prima la mobilitazione dei lavoratori della scuola, che dovrà trovare il modo di confluire nell’iniziativa più generale che la Cgil sta definendo in questi giorni. La legge di bilancio che non dà risposte alla scuola, infatti, è la stessa su cui la Cgil ha già sollevato parecchie critiche su diversi temi di rilievo, dal fisco alle pensioni, in quanto le misure proposte non soddisfano affatto le esigenze del mondo del lavoro. Da qui l’urgenza di una mobilitazione generale, per contrastare e modificare una legge di bilancio dai contenuti regressivi e antipopolari.