Al solo il minimo accenno alla mobilitazione, di fronte ad una legge di bilancio che non risponde al necessario cambiamento sociale, i soliti giornaloni hanno riaperto il coro contro un sindacato che sarebbe attardato a difesa dei “privilegi” degli anziani a scapito del futuro dei giovani. Puntualmente ritornano i refrain sulla intangibilità della legge Fornero: costringere i lavoratori a rimanere in azienda fino a 67 anni – con un tracciato già designato fino ai 70, in corrispondenza all’auspicato aumento dell’aspettativa di vita – chissà come darebbe miracolose certezze di pensione ai più giovani...
Mentono sapendo di mentire, sia sulla presunta non sostenibilità finanziaria del sistema, sia sulla durata della vita lavorativa rispetto agli altri paesi europei, sia sul destino previdenziale dei giovani. Che è grigio, se non nero. Ma non perché i loro “padri” andrebbero in pensione troppo presto, bensì perché, proprio da quando la “riforma” Dini ha introdotto per gli assunti da gennaio 1996 il sistema contributivo, i vari governi hanno stabilito sempre maggiori “flessibilità” del mercato del lavoro, cioè condannato giovani e meno giovani ad una precarietà di lavoro e di vita, che si riflette inesorabilmente in pensioni sempre più povere, oltre che sempre più lontane.
E infatti, mentre politici e opinionisti attaccano il sindacato come se fosse il promotore del sistema delle “quote”, la principale rivendicazione della piattaforma unitaria, da anni presentata al governo di turno, è la pensione contributiva di garanzia per lavoratrici e lavoratori del sistema contributivo.
Sono fin troppo evidenti le conseguenze negative di un lavoro sempre più precario sulle attese pensionistiche e la pensione di garanzia risponde alla necessità di stabilire l’equità intergenerazionale, in modo che i lavoratori di oggi, una volta pensionati, ricevano un trattamento comparabile con quello attuale. Si tratta di una soluzione diversa dall’integrazione al minimo, poiché collegata agli anni di lavoro e ai contributi versati, e in grado di valorizzare, con contribuzione figurativa, i periodi di discontinuità lavorativa, di formazione, di basse retribuzioni, e il lavoro di cura, quasi sempre a carico delle donne – che non a caso hanno in media pensioni molto più basse degli uomini.
In questo quadro, particolare attenzione è riservata anche alle pensioni ai superstiti (coloro che ricevono la pensione di un lavoratore deceduto) o di invalidità. Per questo tipo di pensioni, infatti, il calcolo contributivo non prevede forme di solidarietà, come ad esempio l’integrazione al trattamento minimo, e quindi non tiene conto nemmeno delle fragilità individuali.
La riforma strutturale del sistema previdenziale, per superare la legge Fornero, riguarda insomma soprattutto le donne, penalizzate dal forte aumento del requisito di età per accedere alla pensione di vecchiaia, e i giovani penalizzati da un mercato del lavoro sempre più precario.
In questo ambito si colloca anche la rivendicazione di un ritorno alla flessibilità in uscita, che in un sistema contributivo definisce di per sé l’equilibrio tra anni di contribuzione e ammontare dell’assegno pensionistico. L’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita è uno schema che va cambiato, innanzitutto perché non distingue le condizioni soggettive dei lavoratori e la diversa gravosità dei lavori, costituisce un obbligo insensato a raggiungere un’età anagrafica rigida e prestabilita per tutti, costituisce un “tappo” per l’accesso al lavoro dei più giovani, impedisce la redistribuzione dei benefici sociali derivanti dall’allungamento della vita. L’obiettivo, quindi, non è inseguire alcuna quota, ma restituire al sistema previdenziale le flessibilità proprie di un sistema contributivo.
A questo nucleo di modifiche strutturali dell’iniqua legge Fornero si aggiungono le rivendicazioni per chi è già in pensione, il cui potere d’acquisto è sempre più ridimensionato, senza che il “governo dei migliori” si sia degnato di prestare la minima attenzione. Le richieste dei sindacati pensionati e delle confederazioni vanno dall’estensione della quattordicesima (oggi limitata ai pensionati da lavoro con un reddito non superiore al doppio del trattamento minimo) alla parità di trattamento fiscale (se le pensioni fossero tassate come i redditi da lavoro dipendente, i pensionati pagherebbero meno tasse per circa 13 miliardi sui 57 totali del loro gettito), all’adeguamento all’andamento dell’inflazione. Il sindacato chiede che si torni al meccanismo vigente fino al 2011, più efficace di quello attuale, e che sia ampliata la fascia di reddito coperta integralmente dall’inflazione, oggi ferma a quattro volte il trattamento minimo, circa 2.000 euro lordi mensili.
Questi sono i chiari e noti obiettivi sul versante previdenziale che - uniti alle rivendicazioni su occupazione, ammortizzatori, equità fiscale, difesa e ampliamento del welfare, a partire dalla sanità pubblica – caratterizzeranno la necessaria mobilitazione delle prossime settimane.