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Il voto in Emilia Romagna ci fa respirare un po’, ma non garantisce nulla, l’aria che tira resta pesante per ogni democratico. Il vento di destra soffia nelle periferie, si prende l’anima di un pezzo del mondo del lavoro e dei ceti più popolari, e rinforza la parte più conservatrice del paese. Rompe solidarietà e cancella valori che appartengono alla nostra storia antifascista. Alla “vittoria” emiliana fa da contraltare la sconfitta in Calabria e un centrodestra che già prevale in molte regioni.
Le elezioni sono lo specchio di un paese diviso, di profonde diseguaglianze, di un malessere sociale che alimenta la deriva sovranista, populista e razzista. Non abbiamo vinto ma solo rallentato il pericolo della destra, grazie anche alle “sardine”, un pezzo di popolo deluso dalla sinistra che si è ripreso la piazza e le urne in difesa della Costituzione, e contro la violenza razzista e fascistoide del fomentatore di odio.
Quelle piazze chiedono di cancellare i decreti Salvini che colpiscono chi salva vite in mare e chi lotta per i diritti o esprime solidarietà. Il governo tace. È una vergogna la proroga per tre anni del patto Italia-Libia dell’ex ministro Minniti, dopo che l’Onu ha definito i centri libici dei lager teatro di orrori, sevizie e morte, come denunciato dalle ong. Il governo è fermo per opportunismo, non svolge alcun ruolo, rimuovendo che lì c’è una guerra, come è stato denunciato nella nostra iniziativa per la pace del 28 gennaio.
La deriva valoriale va sconfitta nella testa delle persone con una radicale battaglia politica, economica, sociale e culturale. La sinistra e il governo possono riconquistare il consenso solo con politiche in forte discontinuità con il passato e rimettendo al centro lavoro e diritti. Devono cancellare il jobs act e ripristinare l’articolo 18 estendendo i diritti a tutti, come propone la Cgil con la Carta dei Diritti; difendere i beni pubblici, investire in ricerca, istruzione, sanità; colpire l’evasione, fermare le privatizzazioni e promuovere un nuovo intervento pubblico in economia. In una realtà con una grave disoccupazione, i salari tra i più bassi, con milioni di pensioni da lavoro povere e un’età di pensionamento fra le più alte, occorre ridurre gli orari e ridistribuire il lavoro, aumentare i salari reali e fare una vera riforma del sistema previdenziale, come indicato dal congresso.
Bisogna cancellare la legge Fornero, mentre quota 100 va superata in avanti, respingendo le pressioni del Fmi di ricalcolare tutte le pensioni con il contributivo. Pena la perdita di credibilità e un prezzo alto da pagare – come è toccato alla sinistra di governo e al sindacato ai tempi di Monti - dobbiamo incalzare il governo senza reticenze sui contenuti della piattaforma unitaria, dare un messaggio chiaro, fare le assemblee e prepararci all’eventuale mobilitazione.
I risultati delle elezioni in Emilia Romagna, una delle tre, quattro regioni che compongono la cosiddetta “locomotiva d’Italia”, hanno confermato una linea di tendenza che si è affermata dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, diventata a cascata una crisi economica e sociale paragonabile a quella epocale dei primi anni trenta del secolo scorso. In questo contesto, anche le elezioni emiliano romagnole, così come era accaduto alle politiche del 2018, hanno registrato che nelle aree più periferiche, rispetto ai centri decisionali ed economici della regione, si è votato in opposizione allo “stato delle cose”. A riprova, la carta geografica del voto è tinta di verde Lega lungo i comprensori appenninici e nelle province più lontane da Bologna, e di rosso lungo la via Emilia.
Dopo le elezioni politiche del 2018, una meritoria ricerca del “Cantiere delle idee”, condotta con approfondite interviste a 50 residenti in quartieri periferici sia di metropoli che di città di medie dimensioni, aveva già evidenziato questa tendenza: sintetizzando, la provincia italiana sta votando sempre più in reazione al ‘centro’, perché pensa che lì ci sia la ricchezza, mentre tutto il resto è una gigantesca periferia. Ecco così che nelle “aree profonde” si vota in reazione all’establishment dei capoluoghi, con una scelta di campo che inizialmente ha premiato il Movimento 5 Stelle, e in seguito si è diretta verso la Lega di Salvini.
Non per caso, dalle interviste del “Cantiere delle idee” nelle periferie era emerso un forte disagio, dovuto alla mancanza di una progettualità della governance sui servizi pubblici e sociali, sul governo del territorio, e sulle altre condizioni che possono favorire la nascita di un tessuto civile. Di qui un voto di rottura, catalizzatosi in questa fase politica sulla Lega.
Nel Consiglio dei ministri del 23 gennaio scorso è stata annunciata quella diminuzione della pressione fiscale sui lavoratori che la Cgil, unitariamente, ha chiesto con le mobilitazioni di questi mesi. Le risorse erano già stanziate in legge di bilancio 2020, ma la loro distribuzione era ancora materia di discussione.
La Cgil ha creduto necessario distribuire le risorse in una platea che comprendesse anche i redditi medi, oltre quelli bassi già beneficiati dal bonus 80 euro cui tuttavia doveva andare un, seppur piccolo, aumento. Si pensi che i lavoratori con redditi dai 26mila ai 40mila euro sono circa il 19% della platea e versano oltre il 27% dell’Irpef. Inoltre questi lavoratori spesso non possono fruire di sconti nelle tariffe dei servizi pubblici, causa Isee mediamente alto.
Questo, certo, è in parte normale in un sistema progressivo, ma finisce per frustrare famiglie di lavoratori che a fronte di un versamento rilevante devono comunque pagare tariffa (quasi) piena per i servizi che contribuiscono a mantenere con le loro imposte. Alleggerire il peso del fisco per queste fasce era quindi necessario. Lo ripetiamo, senza dimenticare i redditi più bassi.
Il principale problema erano le risorse stanziate. Se è vero che da anni non si vedevano poste destinate alla riduzione delle imposte per i lavoratori, e da ancora più tempo non si vedeva un governo disposto a discutere di fisco con le parti sociali, è vero anche che i 3 miliardi messi in campo per il 2020 non sono quanto il sindacato riteneva necessario.
Il testo del decreto non è ancora stato pubblicato, ma dei benefici concordati si è data ampia diffusione. Si parla di un’evoluzione del bonus 80 euro fino a 100 euro, destinato non più solo entro i 24.600 euro di reddito complessivo ma fino ai 28mila euro, estendendo il beneficio a circa 13 milioni di contribuenti. Questi 100 euro mensili, divenuti oltre i 28mila euro una detrazione e non più un bonus, scendono fino a 80 per i redditi fino a 35mila euro, investendo altri due milioni di contribuenti, esaurendosi definitivamente a 40mila euro, con benefici per circa 900mila altri lavoratori.
Questa riduzione delle imposte partirà da luglio 2020 e si protrarrà anche nel 2021, anno per il quale potrebbe essere messa in campo una più organica riforma fiscale che tuttavia non potrà determinare un incremento delle imposte per i lavoratori coinvolti dal provvedimento 2020.
Questo provvedimento - è stato confermato dal governo dopo le insistenze dei sindacati - deve essere solo il primo passo di una riforma del fisco. Perché è evidente quanto sia limitata la sua attuale portata. Innanzitutto perché esclude i pensionati, cui non vengono ridotte le imposte dopo che non sono state integralmente rivalutate le pensioni, mentre il fondo per la non autosufficienza – storica richiesta dei sindacati dei pensionati - non è ancora partito.
Inoltre i sindacati hanno più volte fatto notare come l’Irpef soffra di una architettura ormai troppo datata. Dal 1974, anno della sua nascita, molte cose sono cambiate. Su tutte, possiamo sottolinearne tre. L’Irpef è nata come imposta personale quasi onnicomprensiva, ma nel tempo la sua base imponibile è andata erodendosi fino al punto, attuale, in cui essa è diventata nei fatti l’imposta sui soli redditi da lavoro. In questo contesto riformare detrazioni ed aliquote, e chiedere maggiore progressività, avrebbe l’effetto di operare una redistribuzione all’interno del solo mondo del lavoro.
Negli ultimi 30 anni il peso sul Pil del lavoro dipendente è calato di circa 20 punti. Questo dato, oltre alle considerazioni sulla composizione del reddito, sull’andamento della produttività e dei salari, e al tendenziale spostamento degli investimenti al di fuori del mondo del lavoro, significa che un’imposta “lavorocentrica” come l’Irpef abbia la necessità di essere revisionata.
In capo all’Irpef sono state assegnate molte funzioni extrafiscali. Si pensi ad esempio agli oneri detraibili quali spese mediche, spese per il trasporto pubblico o per la formazione. Non si contesta la rilevanza di queste spese, ma il fatto che i rimborsi siano erogati attraverso una restituzione di imposte già pagate, cosa che, ad esempio, comporta l’impossibilità di rimborso agli incapienti. Se poi prendiamo in considerazione le detrazioni spettanti per i figli a carico, che seguono la stessa logica, arriviamo all’assurdità dei casi in cui lavoratori (o pensionati) sono “troppo poveri” per fruire dei benefici previsti per i figli a carico.
È probabilmente più chiaro, dopo avere descritto alcuni limiti dell’attuale sistema tributario, che la Cgil ha definito la riduzione del cuneo un “primo passo” non per posa, o per chiedere il classico +1, ma perché è davvero giunto il momento di una revisione del sistema. Contiamo quindi che questi limiti siano risolti nel percorso della riforma, o dovremmo con rammarico giudicare del tutto insufficiente quanto fatto finora.
A partire dal 7 febbraio le lavoratrici e i lavoratori del credito voteranno sull’intesa per il rinnovo del contratto. Un contratto acquisitivo, giusto, innovativo e identitario.
L’ipotesi di accordo siglata lo scorso 19 dicembre, che sarà presto sottoposta al voto assembleare a partire dal prossimo 7 febbraio, riguarda 280mila lavoratrici e lavoratori che compongono la categoria del credito. Si tratta di un contratto finalmente acquisitivo, a partire dall’importante recupero economico – 190 euro a regime per la figura media – come non se ne vedevano dagli anni pre-crisi. Un recupero economico che comprende una parte di produttività, normalmente negoziata nel livello aziendale, qui ricondotta alla generalità della categoria, estendendo il beneficio anche ai dipendenti delle aziende minori o in difficoltà.
Un contratto giusto, perché elimina la penalizzazione economica del cosiddetto “salario di ingresso” (negli anni di crisi le banche hanno assunto applicando una penalizzazione temporanea sugli stipendi). Limitatamente a lavoratrici e lavoratori già in servizio, la parificazione retributiva avviene mediante il Fondo nazionale per il sostegno all’occupazione, finanziato dai dipendenti: è un’operazione di redistribuzione solidaristica dai più anziani ai più giovani.
Un contratto innovativo, perché affronta concretamente il tema della disconnessione e offre a lavoratrici e lavoratori strumenti utili a delimitare l’ingerenza aziendale e la disponibilità senza confini che le aziende richiedono ai dipendenti, spacciandola per “regola di ingaggio” o “senso di responsabilità”. Regolamenta il lavoro agile come modello organizzativo - su base volontaria - di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, confermandone il carattere di lavoro subordinato con precisi diritti e doveri. Istituisce il “Comitato nazionale bilaterale e paritetico sull’impatto delle nuove tecnologie/digitalizzazione nell’industria bancaria”, con funzioni di cabina di regia utile a coniugare nuovi bisogni sociali e innovazione tecnologica, attraverso la contrattazione di anticipo.
Un contratto identitario che, con la “Dichiarazione congiunta delle parti in tema di licenziamenti disciplinari illegittimi”, riapre la discussione politica sull’articolo 18, impegnando anche le controparti a sollecitare interventi legislativi a tutela di lavoratrici e lavoratori. È una Dichiarazione da valorizzare in quanto apre un nuovo spiraglio rivendicativo, a partire dalla categoria dei bancari, ma auspicabilmente da replicare in altri rinnovi contrattuali, su una battaglia di civiltà mai abbandonata dalla Cgil.
Un contratto che mantiene le promesse di salario, diritti e tutele contenute nella piattaforma, ci dimostra che, tutti insieme e senza lasciare indietro nessuno, si può fare un passo avanti. La parola passa ora alle lavoratrici e lavoratori del settore.