Nel Consiglio dei ministri del 23 gennaio scorso è stata annunciata quella diminuzione della pressione fiscale sui lavoratori che la Cgil, unitariamente, ha chiesto con le mobilitazioni di questi mesi. Le risorse erano già stanziate in legge di bilancio 2020, ma la loro distribuzione era ancora materia di discussione.
La Cgil ha creduto necessario distribuire le risorse in una platea che comprendesse anche i redditi medi, oltre quelli bassi già beneficiati dal bonus 80 euro cui tuttavia doveva andare un, seppur piccolo, aumento. Si pensi che i lavoratori con redditi dai 26mila ai 40mila euro sono circa il 19% della platea e versano oltre il 27% dell’Irpef. Inoltre questi lavoratori spesso non possono fruire di sconti nelle tariffe dei servizi pubblici, causa Isee mediamente alto.
Questo, certo, è in parte normale in un sistema progressivo, ma finisce per frustrare famiglie di lavoratori che a fronte di un versamento rilevante devono comunque pagare tariffa (quasi) piena per i servizi che contribuiscono a mantenere con le loro imposte. Alleggerire il peso del fisco per queste fasce era quindi necessario. Lo ripetiamo, senza dimenticare i redditi più bassi.
Il principale problema erano le risorse stanziate. Se è vero che da anni non si vedevano poste destinate alla riduzione delle imposte per i lavoratori, e da ancora più tempo non si vedeva un governo disposto a discutere di fisco con le parti sociali, è vero anche che i 3 miliardi messi in campo per il 2020 non sono quanto il sindacato riteneva necessario.
Il testo del decreto non è ancora stato pubblicato, ma dei benefici concordati si è data ampia diffusione. Si parla di un’evoluzione del bonus 80 euro fino a 100 euro, destinato non più solo entro i 24.600 euro di reddito complessivo ma fino ai 28mila euro, estendendo il beneficio a circa 13 milioni di contribuenti. Questi 100 euro mensili, divenuti oltre i 28mila euro una detrazione e non più un bonus, scendono fino a 80 per i redditi fino a 35mila euro, investendo altri due milioni di contribuenti, esaurendosi definitivamente a 40mila euro, con benefici per circa 900mila altri lavoratori.
Questa riduzione delle imposte partirà da luglio 2020 e si protrarrà anche nel 2021, anno per il quale potrebbe essere messa in campo una più organica riforma fiscale che tuttavia non potrà determinare un incremento delle imposte per i lavoratori coinvolti dal provvedimento 2020.
Questo provvedimento - è stato confermato dal governo dopo le insistenze dei sindacati - deve essere solo il primo passo di una riforma del fisco. Perché è evidente quanto sia limitata la sua attuale portata. Innanzitutto perché esclude i pensionati, cui non vengono ridotte le imposte dopo che non sono state integralmente rivalutate le pensioni, mentre il fondo per la non autosufficienza – storica richiesta dei sindacati dei pensionati - non è ancora partito.
Inoltre i sindacati hanno più volte fatto notare come l’Irpef soffra di una architettura ormai troppo datata. Dal 1974, anno della sua nascita, molte cose sono cambiate. Su tutte, possiamo sottolinearne tre. L’Irpef è nata come imposta personale quasi onnicomprensiva, ma nel tempo la sua base imponibile è andata erodendosi fino al punto, attuale, in cui essa è diventata nei fatti l’imposta sui soli redditi da lavoro. In questo contesto riformare detrazioni ed aliquote, e chiedere maggiore progressività, avrebbe l’effetto di operare una redistribuzione all’interno del solo mondo del lavoro.
Negli ultimi 30 anni il peso sul Pil del lavoro dipendente è calato di circa 20 punti. Questo dato, oltre alle considerazioni sulla composizione del reddito, sull’andamento della produttività e dei salari, e al tendenziale spostamento degli investimenti al di fuori del mondo del lavoro, significa che un’imposta “lavorocentrica” come l’Irpef abbia la necessità di essere revisionata.
In capo all’Irpef sono state assegnate molte funzioni extrafiscali. Si pensi ad esempio agli oneri detraibili quali spese mediche, spese per il trasporto pubblico o per la formazione. Non si contesta la rilevanza di queste spese, ma il fatto che i rimborsi siano erogati attraverso una restituzione di imposte già pagate, cosa che, ad esempio, comporta l’impossibilità di rimborso agli incapienti. Se poi prendiamo in considerazione le detrazioni spettanti per i figli a carico, che seguono la stessa logica, arriviamo all’assurdità dei casi in cui lavoratori (o pensionati) sono “troppo poveri” per fruire dei benefici previsti per i figli a carico.
È probabilmente più chiaro, dopo avere descritto alcuni limiti dell’attuale sistema tributario, che la Cgil ha definito la riduzione del cuneo un “primo passo” non per posa, o per chiedere il classico +1, ma perché è davvero giunto il momento di una revisione del sistema. Contiamo quindi che questi limiti siano risolti nel percorso della riforma, o dovremmo con rammarico giudicare del tutto insufficiente quanto fatto finora.