Il decreto legge “dignità” fra parole e fatti - di Lorenzo Fassina

Quando si parla di “dignità” si evoca un principio sacralmente scolpito nella Costituzione italiana, e che sintetizza bene l’orientamento personalistico e lavoristico proprio della nostra Carta fondamentale. Sappiamo benissimo che negli ultimi vent’anni, dal “pacchetto Treu” sino al renziano jobs act, questo orientamento pro-labour ha subito quello che alcuni hanno definito un cambiamento di paradigma, se non addirittura una modificazione di codice genetico.

E’ naturale quindi che, all’annuncio di un intervento normativo, da parte del governo Conte-Salvini-Di Maio, di profonda revisione delle leggi precarizzanti di questo ultimo ventennio, l’attenzione del mondo del lavoro si sia subito focalizzata sullo scarto fra petizioni di principio ed esiti raggiunti. Occorre, in proposito, sottolineare subito che il “decreto dignità”, pur contenendo misure interessanti e condivisibili, da tempo richieste dalla Cgil, a partire dall’intervento sui tempi determinati, manca di coraggio nell’affrontare, attraverso un intervento organico, un profondo ridisegno delle regole del mercato del lavoro.

Questo pare essere il principale limite dell’intervento del governo, oltre al fatto che, per dimostrare con forza la volontà annunciata di rimettere al centro il lavoro e la sua dignità, si deve per necessità ambire ad una proposta più forte che parta dagli investimenti volti a creare occupazione, dal sostegno agli ammortizzatori sociali per affrontare l’enorme problema sociale determinato dalla crisi, dal rilancio e dagli investimenti sulle politiche attive del lavoro. Se non sostenute da un organico disegno di contrasto alla precarietà, le positive misure sul tempo determinato rischiano infatti di spostare il peso della precarietà su forme ancora meno tutelate e ampiamente abusate, quali i tirocini o le false partite Iva, se non di incrementare il ricorso al lavoro intermittente o al lavoro autonomo tout court.

Detto questo, occorre subito sottolineare che l’intervento sui contratti a termine, pur andando nella giusta direzione di reintrodurre le causali, mantiene la “acausalità” nel primo contratto di 12 mesi. E’ abbastanza chiaro a tutti come questa possibilità di utilizzo libero del termine potrà ingenerare un forte turn-over di manodopera precaria.

Le polemiche di Confindustria sulla perdita di posti di lavoro e sull’aumento del contenzioso sono facilmente superabili. Da una parte, se le cifre di cui si parla sono quelle dell’Inps, siamo di fronte a numeri infinitesimali. Se si guarda invece al problema del contenzioso, è facile replicare che se gli imprenditori useranno i contratti a termine rispettando in modo trasparente i criteri di utilizzo rappresentati dalle causali, non ci sarà alcuna impennata del contenzioso. Il dubbio, più che lecito, è che le ragioni per cui non si vuole la causalità siano ben altre, e note a tutti noi.

C’è poco coraggio anche nell’intervento sui licenziamenti ingiustificati, che riprende una vecchia proposta di innalzamento delle indennità, senza tuttavia intervenire né sul ripristino della reintegra né sull’impianto più generale delle norme contenute nel decreto sulle tutele crescenti. Insomma, nessun “licenziamento” del jobs act.

L’intervento sull’articolo 3 del Decreto legislativo 23/2015 in materia di ‘indennità licenziamento ingiustificato’, pur muovendo nella direzione, da sempre auspicata, del rafforzamento della funzione di deterrenza contro i facili licenziamenti rispetto alla norma precedente, non tocca assolutamente l’intero impianto dello stesso decreto. In primo luogo perché non viene reintrodotta la reintegrazione, fulcro insostituibile della tutela del lavoratore. In secondo luogo, al giudice non viene data libertà di calibrare il risarcimento. In terzo luogo perché l’aumento delle indennità di licenziamento non riguarda due situazioni cruciali nella disciplina dei risarcimenti.

La prima situazione riguarda i licenziamenti con vizi procedurali e formali, dove rimane il ‘range’ 2-12 mensilità, riducibile alla metà nelle piccole aziende. In proposito, basta pensare ai licenziamenti con vizio di motivazione per capire la grandezza del fenomeno. La seconda situazione riguarda l’offerta conciliativa prevista dall’articolo 6 del jobs act (‘range’ 2-18 mensilità, che per i lavoratori da aziende piccole si riduce addirittura al ‘range’ 1-6), strumento di forte compressione di tutela del lavoratore in tutti i casi di licenziamento illegittimo, che non viene modificata né tanto meno abolita.

Anche se le prospettive di emendamenti migliorativi nell’iter parlamentare sono obiettivamente piuttosto scarse, occorre aver fiducia e sperare che qualche “manina”, stavolta saggia, possa rendere un po’ più coraggioso questo timido passo in avanti.

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