Il confronto sulle pensioni si è riaperto, e Cgil, Cisl, Uil hanno dato poco tempo al governo, per assicurarsi che non si tratti di una manovra dilatoria e che l’esecutivo non abbia alibi per decisioni unilaterali. Il 13 novembre - dopo le verifiche “tecniche” - sapremo se ci sarà una reale disponibilità o la chiusura nei fatti verso le modifiche sostanziali indicate dalla piattaforma unitaria. Intanto non si può stare fermi: bisogna realizzare le assemblee di lavoratori e pensionati anche con l’indizione di uno sciopero confederale, informando e raccogliendo le forze per continuare la pressione su governo e Parlamento, in vista di una mobilitazione più generale, indispensabile in caso di risposte negative.
Nessuno si illuda che il sindacato, la Cgil possa rinunciare alla sua azione autonoma e alla sua funzione di rappresentanza generale. Dobbiamo cambiare l’agenda della politica e imporre discontinuità a scelte che hanno peggiorato le condizioni di vita e di lavoro di milioni di uomini e di donne, di pensionati, delle future generazioni. Ai partiti, tutti, e al governo si chiede di voltare pagina rispetto alle scelte nefaste del passato, di non accettare come naturale una disoccupazione giovanile oltre il 35% e la presenza di un lavoro precario e con pochi diritti, di affrontare i nodi strutturali del paese.
Occorre poi un cambio di passo nella modifica delle modalità di uscita dal lavoro - a partire, ma non solo, dai lavori più pesanti e usuranti – e riconoscere il lavoro di cura; definire una pensione di garanzia per quanti sono nel sistema contributivo con lavori precari e discontinui; ripristinare il meccanismo di adeguamento delle pensioni in essere, e ristabilire un’equità fiscale tra pensionati e lavoratori dipendenti. Non è tempo di escamotage. Già nella legge di bilancio e nei collegati devono esserci misure precise, tanto più per quelle che non hanno immediata incidenza sui saldi contabili.
Non pensino, il governo e la politica, di poter continuare a giocare la carta dello scontro intergenerazionale. Bloccare l’innalzamento dell’età pensionabile è la prima misura per favorire il lavoro dei giovani. E un buon lavoro - stabile e ben retribuito - è il presupposto per le pensioni di oggi e di domani. Tutto il contrario delle politiche mortificanti dei bonus, del jobs act e del decreto Poletti, che hanno solo elargito enormi mance alle imprese segnando un aumento della precarietà. Avanti quindi con fermezza e determinazione. Non abbiamo bisogno di rinvii, di ritocchi, di piccoli cambiamenti dal sapore elettoralistico, ma di cambi di rotta. Pur con le difficoltà nel costruire un fronte ampio di mobilitazione, di tenuta organizzativa e di prospettiva, non ci adeguiamo e non ci rassegniamo. Questo ci viene chiesto da chi rappresentiamo.
Il 28 ottobre scorso ricorreva l’anniversario della “Marcia su Roma” da parte del partito fascista. All’annuncio mediatico di Forza Nuova, formazione dichiaratamente fascista, di voler organizzare in quel giorno una cosiddetta ‘marcia dei patrioti’, l’Anpi ha risposto promuovendo iniziative in tutto il paese, per ricordare e far conoscere alle nuove generazioni il significato di una data nefasta, e per evidenziare l’opposizione non solo al fascismo che si richiama a quello del tragico ventennio, ma anche a tutte le forme in cui i nuovi fascisti si stanno manifestando. Da quelli “del terzo millennio” di Casa Pound, ai tantissimi che non manifestano pubblicamente la loro adesione al fascismo ma non mancano di seguirne i precetti autoritari, antidemocratici, xenofobi, razzisti e, non di rado, antisemiti.
Per gli smemorati e i distratti, che pure fascisti non sono, repetita iuvant: i numeri del regime fascista in Italia raccontano di 27mila e 735 anni di carcere agli oppositori; 4mila e 596 condanne, di cui 31 condanne a morte eseguite. Solo fra il gennaio e il giugno 1921 furono distrutti dai fascisti 17 giornali e tipografie, 59 Case del Popolo, 119 Camere del Lavoro, 83 Leghe contadine, 141 sezioni Comuniste o Socialiste, 110 circoli culturali. Tra il 1921 e il 28 ottobre 1922, giorno della Marcia su Roma, lo squadrismo fascista uccise circa 3mila persone in Italia. Con il regime fascista l’Italia fu distrutta, 350mila soldati furono uccisi, e 110mila furono i caduti per la Liberazione. Ancora, furono 45mila i deportati politici e razziali nei lager, e 600mila i soldati che si rifiutarono di aderire alla repubblica nazifascista di Salo’. Fra i deportati nei campi di sterminio 7.800 erano ebrei italiani, e la quasi totalità non tornò a casa, al pari di migliaia di oppositori politici, comunisti e socialisti in testa, e di rom e omosessuali.
Il 6 ottobre si è svolto lo sciopero nazionale del personale delle Province e delle Città Metropolitane. Indetto da Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Fpl, lo sciopero ha visto i lavoratori partecipare a numerose iniziative regionali, e ad un presidio nazionale in piazza Montecitorio. Obiettivo: rivendicare al governo e al Parlamento un intervento che, attraverso la legge di bilancio, ponga fine allo stato di permanente precarietà finanziaria che le province conoscono ormai da molti anni. Precarietà che mette continuamente a rischio i servizi ai cittadini, fino a mettere in discussione, nei casi più gravi come quelli delle province siciliane o calabresi, lo stipendio stesso dei lavoratori.
i tratta di un contesto prodotto dallo stesso governo nel quadro della stagione che, antecedentemente alla vittoria del “No” nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, ha visto le Province al centro di una campagna politica che le ha spacciate per inutili sovrastrutture burocratiche, invece che importanti realtà per presidio politico e democratico del territorio. L’esito di questa campagna è stata la cosiddetta riforma Delrio dell’aprile 2014: una legge ambigua e ambivalente, accompagnata da un dibattito a tratti parso privo di contenuti che non fossero l’esigenza di risparmiare sul costo della rappresentanza, o di infliggere una severa lezione alla così detta “casta”. Così facendo, si è furbescamente data in pasto all’opinione pubblica non solo la classe politica provinciale, ma anche chi era chiamato a garantire quotidianamente servizi e diritti, ossia i dipendenti delle Province italiane.
Com’è stato possibile affrontare il tema di una riforma dell’ente Provincia con tanta approssimazione? La legge Delrio prevedeva che le Province esercitassero alcune funzioni fondamentali, come la pianificazione territoriale, la pianificazione dei servizi di trasporto, gestione dell’edilizia scolastica, mentre ulteriori funzioni venivano riconosciute alle Città Metropolitane. Su questo quadro complesso interveniva però, a gamba tesa, la legge di stabilità 2015 che prevedeva la riduzioni degli organici delle Province e delle Città Metropolitane rispettivamente del 50% e del 30%, e la restituzione alle casse dello Stato, da parte di questi enti, di 650 milioni di euro nel 2015, 1.300 nel 2016 e 1.950 per il 2017. In questo modo, il legislatore precipitava nel caos il processo di attuazione della riforma delle Province. Infliggendo tagli di personale e di risorse di quella portata, palesava poi la volontà di vedere le Province “sparite” ante-litteram, persino rispetto ai compiti ridotti attribuiti dalla legge.
Solo la mobilitazione dei lavoratori nel dicembre del 2014 impose al legislatore di indicare altre soluzioni per le sorti del personale, impedendo che l’unico strumento fosse la mobilità biennale e poi il licenziamento. Purtroppo la soluzione indicata, il portale della mobilità delle pubbliche amministrazioni, si rivelerà per molti versi inutile e controproducente.
Oggi, a tre anni e mezzo dall’approvazione della legge Delrio, il quadro è confuso e lascia il senso di una sconfortante indeterminatezza. Il personale delle Province delle Regioni a statuto ordinario è passato da circa 48.000 unità nel 2014 a 32.755 nel 2015. Circa 7.900 unità sono fuoriuscite passando per la ricollocazione di alcune funzioni alle Regioni, o attraverso il portale della mobilità. Altre 3.000 circa sono andate in pensione. Ci sono poi altri 5.337 addetti dei Centri per l’impiego il cui destino resta incerto, nonostante la mobilitazione abbia costretto il governo ad impegnarsi per la loro ricollocazione presso le Regioni.
Sempre la mobilitazione dei lavoratori ha fatto sì che alcuni interventi normativi abbiano parzialmente ridotto la portata dei tagli, potandoli a 622 milioni nel 2015, 867 nel 2016 e 1.730 nel 2017. Tuttavia lo sforzo è ancora insufficiente: infatti, per il solo svolgimento delle funzioni fondamentali, la società Sose del Mef ha certificato che sono necessari ulteriori 600 milioni circa per i bilanci delle Province. Il governo, con i decreti del giugno 2017, ne ha stanziati 180, di cui 70 destinati a coprire lo squilibrio nei bilanci delle Province e Città Metropolitane. Uno stanziamento insufficiente: ne servirebbero più di 200 solo per evitare procedure di dissesto finanziario di almeno 32 Province.
Oggi i lavoratori delle Città Metropolitane e delle Province chiedono che ci sia un ripensamento complessivo della “riforma”; che venga ripristinato un livello di finanziamento strutturale dei servizi e ripensato complessivamente l’assetto delle funzioni delle autonomie locali, valorizzando e non svilendo l’opportunità rappresentata dall’ente intermedio Provincia, specie in un paese che soffre per le ridotte dimensioni di molti Comuni.
“Una manovra immobile”: così, con un titolo essenziale ed efficace, Repubblica - giornale non certo ostile al governo - ha definito la legge di bilancio, approdata finalmente al Senato dopo che la sua “copertina” era stata licenziata dal Consiglio dei ministri ben due settimane prima. Ma non c’è nulla di più irresponsabile, a fronte di una situazione economica e occupazionale in peggioramento, che restare ancorati ad una ‘renzinomics’ che fa acqua da tutte le parti.
Nei 120 articoli del disegno di legge governativo non c’è traccia della minima svolta. La logica dei bonus regna invariata, emblema di una politica economica incapace di affrontare i nodi strutturali del nostro paese e volutamente indirizzata a tappare qualche buco, venendo incontro soprattutto alle esigenze delle imprese e ai richiami elettorali.
Naturalmente le misure strutturali di cui avremmo bisogno non sono quelle che intende Draghi, il quale ha perfettamente ragione a dire che gli acquisti di titoli del debito pubblico della Bce - peraltro ridotti della metà anche se ancora open-ended, cioè privi di un termine - da soli non rilanciano né l’economia né il tasso di inflazione (anzi, a lungo andare provocano “trappole di liquidità” e distorsioni da assuefazione). Ma ha del tutto torto quando porta ad esempio il jobs act, il cui fallimento è ulteriormente ribadito e certificato dagli ultimi impietosi dati Istat.Quando l’Istat parla di “occupati” non considera la qualità del lavoro (spesso al di sotto della qualifica e delle potenzialità del singolo) e tantomeno il numero delle ore: ne basta una “lavorata” alla settimana per essere “occupati”. Ebbene: tra settembre 2016 e settembre 2017 gli “occupati” sono aumentati di 326mila unità. Ma tra questi solo il 6,7% sono a tempo indeterminato. Il restante 93,3% sono lavoratori “a termine”. Finiti gli effetti degli incentivi, i padroni tornano ad usare lo strumento principe della renzinomics, ovvero il contratto a termine senza obbligo di motivazione causale da parte del datore, contenuto nel famoso decreto Poletti.
Tagli alle spese da un lato; bonus, sgravi (una pacchia per i florovivaisti, viste le misure per il “verde” domestico), incentivi alle imprese, deregolamentazione estrema del mercato del lavoro dall’altro, spingono in avanti la precarizzazione, che non solo risulta ultramaggioritaria nei flussi occupazionali ma intacca anche gli stock. Il tema delle ristrutturazioni aziendali viene affrontato favorendo i licenziamenti e le dimissioni incentivate, in luogo della Cigs. Così si indebolisce strutturalmente la nostra economia. L’esatto contrario di quello che dice Draghi. Se nel 2014 i lavoratori dipendenti “permanenti” erano circa l’87%, ora sono scesi all’84%, e i precari sono saliti dal 13% al 16%.
I soldi pubblici spesi dal governo, per prudenza diciamo intorno ai 20 miliardi di euro, facendo una media fra le varie valutazioni, sono serviti per fare schizzare in alto la precarizzazione, mentre retribuzioni e salari sono diminuiti dall’inizio della crisi – come recentemente ben documentato – e con la produttività del sistema che è ulteriormente scesa e ci distanzia da altri paesi, riducendo la competitività. Quella cifra è più o meno pari all’attuale manovra di bilancio. Intanto l’annunciata lotta alla povertà viene svilita dalla irrisorietà delle cifre previste, mentre fa capolino una sorta di condono, tramite il collegato fiscale che riapre i termini per la “rottamazione delle cartelle”, ovvero l’abbuono dei contenziosi con il fisco.
Una manovra prociclica, che accompagna le scelte e gli interessi delle forze economiche dominanti. Con la tipica cecità che contraddistingue quelle europee in particolare. Questo è il “sentiero stretto” di cui ha parlato Padoan. Il quale è in fibrillazione, perché non è affatto detto che la Ue, che ha già mandato una lettera di rilievi, dia il via libera il 22 novembre alla manovra di bilancio italiana. Tutto si gioca sul “output gap”, la differenza tra la crescita reale e quella potenziale di un paese. Se la differenza si allarga, le autorità Ue dovrebbero intenerirsi e concedere una correzione inferiore del deficit. Solo che sui criteri di calcolo non c’è accordo con la Ue. Un contenzioso antico che riguarda anche altri paesi.
Per l’Italia si tratta un decimale di punto del Pil, circa 1,8 miliardi. Di questi tempi non una cifra da nulla. E non è l’unico motivo di litigio. L’altro è sulle “spese eccezionali” che dovrebbero uscire dai calcoli. In primo luogo quella per i migranti: è vero che il loro flusso è diminuito, sostengono i nostri governanti, ma sono aumentate le spese per le strutture di accoglienza. Davvero cinico questo governo: prima i migranti li lascia annegare in mare o marcire nei campi di concentramento libici, poi però se ne fa scudo contro gli arcigni controllori dei conti di Bruxelles.