Legge di bilancio: la ‘renzinomics’ in chiave elettorale - di Alfonso Gianni

“Una manovra immobile”: così, con un titolo essenziale ed efficace, Repubblica - giornale non certo ostile al governo - ha definito la legge di bilancio, approdata finalmente al Senato dopo che la sua “copertina” era stata licenziata dal Consiglio dei ministri ben due settimane prima. Ma non c’è nulla di più irresponsabile, a fronte di una situazione economica e occupazionale in peggioramento, che restare ancorati ad una ‘renzinomics’ che fa acqua da tutte le parti.

Nei 120 articoli del disegno di legge governativo non c’è traccia della minima svolta. La logica dei bonus regna invariata, emblema di una politica economica incapace di affrontare i nodi strutturali del nostro paese e volutamente indirizzata a tappare qualche buco, venendo incontro soprattutto alle esigenze delle imprese e ai richiami elettorali.

Naturalmente le misure strutturali di cui avremmo bisogno non sono quelle che intende Draghi, il quale ha perfettamente ragione a dire che gli acquisti di titoli del debito pubblico della Bce - peraltro ridotti della metà anche se ancora open-ended, cioè privi di un termine - da soli non rilanciano né l’economia né il tasso di inflazione (anzi, a lungo andare provocano “trappole di liquidità” e distorsioni da assuefazione). Ma ha del tutto torto quando porta ad esempio il jobs act, il cui fallimento è ulteriormente ribadito e certificato dagli ultimi impietosi dati Istat.Quando l’Istat parla di “occupati” non considera la qualità del lavoro (spesso al di sotto della qualifica e delle potenzialità del singolo) e tantomeno il numero delle ore: ne basta una “lavorata” alla settimana per essere “occupati”. Ebbene: tra settembre 2016 e settembre 2017 gli “occupati” sono aumentati di 326mila unità. Ma tra questi solo il 6,7% sono a tempo indeterminato. Il restante 93,3% sono lavoratori “a termine”. Finiti gli effetti degli incentivi, i padroni tornano ad usare lo strumento principe della renzinomics, ovvero il contratto a termine senza obbligo di motivazione causale da parte del datore, contenuto nel famoso decreto Poletti.

Tagli alle spese da un lato; bonus, sgravi (una pacchia per i florovivaisti, viste le misure per il “verde” domestico), incentivi alle imprese, deregolamentazione estrema del mercato del lavoro dall’altro, spingono in avanti la precarizzazione, che non solo risulta ultramaggioritaria nei flussi occupazionali ma intacca anche gli stock. Il tema delle ristrutturazioni aziendali viene affrontato favorendo i licenziamenti e le dimissioni incentivate, in luogo della Cigs. Così si indebolisce strutturalmente la nostra economia. L’esatto contrario di quello che dice Draghi. Se nel 2014 i lavoratori dipendenti “permanenti” erano circa l’87%, ora sono scesi all’84%, e i precari sono saliti dal 13% al 16%.

I soldi pubblici spesi dal governo, per prudenza diciamo intorno ai 20 miliardi di euro, facendo una media fra le varie valutazioni, sono serviti per fare schizzare in alto la precarizzazione, mentre retribuzioni e salari sono diminuiti dall’inizio della crisi – come recentemente ben documentato – e con la produttività del sistema che è ulteriormente scesa e ci distanzia da altri paesi, riducendo la competitività. Quella cifra è più o meno pari all’attuale manovra di bilancio. Intanto l’annunciata lotta alla povertà viene svilita dalla irrisorietà delle cifre previste, mentre fa capolino una sorta di condono, tramite il collegato fiscale che riapre i termini per la “rottamazione delle cartelle”, ovvero l’abbuono dei contenziosi con il fisco.

Una manovra prociclica, che accompagna le scelte e gli interessi delle forze economiche dominanti. Con la tipica cecità che contraddistingue quelle europee in particolare. Questo è il “sentiero stretto” di cui ha parlato Padoan. Il quale è in fibrillazione, perché non è affatto detto che la Ue, che ha già mandato una lettera di rilievi, dia il via libera il 22 novembre alla manovra di bilancio italiana. Tutto si gioca sul “output gap”, la differenza tra la crescita reale e quella potenziale di un paese. Se la differenza si allarga, le autorità Ue dovrebbero intenerirsi e concedere una correzione inferiore del deficit. Solo che sui criteri di calcolo non c’è accordo con la Ue. Un contenzioso antico che riguarda anche altri paesi.

Per l’Italia si tratta un decimale di punto del Pil, circa 1,8 miliardi. Di questi tempi non una cifra da nulla. E non è l’unico motivo di litigio. L’altro è sulle “spese eccezionali” che dovrebbero uscire dai calcoli. In primo luogo quella per i migranti: è vero che il loro flusso è diminuito, sostengono i nostri governanti, ma sono aumentate le spese per le strutture di accoglienza. Davvero cinico questo governo: prima i migranti li lascia annegare in mare o marcire nei campi di concentramento libici, poi però se ne fa scudo contro gli arcigni controllori dei conti di Bruxelles.

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