Industria 4.0 nel settore alimentare: qualità, innovazione e diritti - di Mauro Macchiesi

L’effetto congiunto della globalizzazione senza regole e degli avanzamenti tecnologici ha portato a una forte crescita di inquietudine sociale: è incolmabile la distanza tra un gruppo sociale ristretto - che sta al vertice e detiene la maggior parte del reddito - e gruppi sociali che sono stati lasciati indietro; da questa crisi esce un popolo di sconfitti, senza certezze per il futuro. In questi processi globalizzati hanno avuto un ruolo le grandi aziende senza nazionalità e senza confini. La crisi, che perdura dal 2008, ci pone di fronte alla necessità di ricostruire un progetto di comunità per dare un senso di appartenenza: la battaglia della Cgil di questi mesi sui referendum, e la proposta di legge di iniziativa popolare sui Diritti universali del lavoro, vanno in questa direzione.

L’iniziativa intorno ai processi di “Industria 4.0”, per una grande organizzazione sindacale come la Cgil, è quella di opporsi ad una società senza lavoro. In Italia il comparto agroalimentare è quello che ha maggiori potenzialità per l’utilizzo dei finanziamenti disponibili, ma anche per realizzare interventi virtuosi intorno al concetto di crescita del valore lavoro e sistema industriale.

In Italia non c’è ancora un’analisi degli effetti sulla forza lavoro, ma occorre recuperare questo ritardo perché, se i processi di automazione e digitalizzazione non sono sostenuti da un aumento dei volumi prodotti, si ipotizza uno scarto negativo del 30% fra nuova e vecchia occupazione. In un paese come il nostro, senza adeguati ammortizzatori e servizi per l’impiego inefficienti, è difficile governare processi di mobilità esterni al posto di lavoro.

Una recente ricerca di banca Intesa San Paolo rileva che, fra i primi dieci distretti industriali, sei sono del settore agroalimentare. L’industria alimentare nel nostro paese è costituita da 390mila addetti, 61mila aziende, una media di cinque addetti per azienda; il fatturato è di 105 miliardi di cui 37 miliardi di export, con 6.700 aziende che ne fatturano il 60 % del totale; le aziende quotate in borsa sono nove. Un settore dai forti contrasti macroeconomici, tanto che una lettura tramite le medie è poco esplicativa

E’ evidente che, se osserviamo il profilo industriale, il settore ha la necessità di favorire la crescita dimensionale delle aziende per aumentare la qualità dei prodotto e il valore del brand. Inoltre occorre sancire un legame fra prodotto e territorio, se si vogliono acquisire quote di mercato a livello internazionale.

Negli ultimi anni il mercato interno del food è stato influenzato dall’aumento delle produzioni a marchio delle catene distributive che però, caso unico in Europa, non sono andate all’estero e, quindi, non costituiscono fattori di crescita, ma si sono fermate alla balcanizzazione del mercato interno. La Flai Cgil, insieme all’associazione “Terra”, ha lanciato una campagna per una legge che vieti le aste al doppio ribasso per i prodotti ortofrutticoli e le offerte sottocosto (#ASTEnetevi): non è etico vendere un prodotto sottocosto, perché l’anello più debole delle filiera, che è costituito dai lavoratori, dovrà pagarne le conseguenze.

Da una prima lettura dei progetti ammessi al finanziamento emerge che, per la maggior parte, sono interventi di messa in sicurezza dei sistemi di gestione. Certo questo costituisce una necessità, ma è un intervento difensivo, lontano da un’idea industriale in grado di competere sul mercato mondiale.

Con “Industria 4.0” non ci troviamo più di fronte a processi di riorganizzazione di singoli reparti produttivi o di singoli uffici, ma è il sistema stesso di un comparto che si ristruttura, e questo ci obbliga a ragionare anche fra di noi sugli strumenti contrattuali. Pensiamo alla griglie dei livelli di inquadramento, ai profili professionali; crediamo che per attenuare il fenomeno della robotizzazione e digitalizzazione occorra mettere in campo un intervento finalizzato alla formazione, trovare sedi contrattuali per definire gli strumenti di riconoscimento delle competenze professionali, e diminuire l’incidenza della gerarchia nell’organizzazione del lavoro. Abbiamo bisogno non solo di scuola-lavoro, ma soprattutto di lavoro-scuola; se il fordismo è finito, finisce anche la conseguente metodologia nelle relazioni sindacali. Per gestire i tempi di lavoro e riposo serve una legislazione di sostegno alla contrattazione.

Tutte le grandi aziende del settore si stanno misurando con progetti di ristrutturazione: Ferrero, Barilla, Sammontana, Nestlè e così via. L’accordo sottoscritto con Nestlè è di maggior valore per la ristrutturazione del sito della Perugina e della pizza surgelata di Benevento: un accordo che definisce l’investimento, il cronoprogramma, le sedi sindacali di verifica e il confronto congiunto.

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