Ferve negli Usa la discussione su un “giorno senza immigrati” il prossimo 1° maggio. Le radio in spagnolo si stanno già prodigando con appelli a scioperi e manifestazioni. Un movimento che richiama l’enorme mobilitazione del 1° maggio 2006 in risposta al Sensenbrenner Immigration Bill contro gli immigrati. Allora, in molte città, ci furono le più grandi manifestazioni della storia. I settori del lavoro migrante furono paralizzati: milioni di lavoratori risposero all’appello un Giorno senza Latinos. La partecipazione, differenziata, è stata massiccia dove i membri dei sindacati dei servizi erano prevalentemente latinoamericani. Quest’anno, nel trambusto che circonda la presidenza Trump, il 1° maggio può essere una grande occasione per mostrare la forza e costruire il futuro del movimento operaio.

La partecipazione dei lavoratori è importante per la politica statunitense.
Si guardi alla storia politica della California, dove 23 anni fa, il governatore repubblicano Pete Wilson affrontò una dura battaglia per la rielezione. Lanciò un attacco simile a quello di Trump all’immigrazione “illegale”, pieno di video di messicani che sciamavano in massa ai confini della California. Proposition 187 era uno schema sfacciatamente razzista, per sostenere la sua rielezione. Nella difficile discussione nei sindacati se partecipare alla mobilitazione contro Prop 187, il direttore regionale dell’Afl-Cio David Sickler lanciò un drammatico appello: “Se non marciamo con i Latinos, perderemo la loro fiducia per un’intera generazione”. La partecipazione dei sindacati alla marcia di Los Angeles ha consolidato il nesso tra sindacati e latinoamericani. In una generazione la California è passata da “terra di Reagan” a solida Blue Democratic.

Ora, la stessa sfida è di fronte al movimento operaio su scala nazionale. Sostenendo le proteste del prossimo 1° maggio, i sindacati possono dimostrare di essere pronti a rappresentare la crescente componente latinoamericana del mondo del lavoro. Al contrario, rimanere a lato ci segnerebbe come spettatori della repressione razzista.
Alcuni dirigenti sindacali delle costruzioni, ciecamente e ingenuamente, hanno assunto l’agenda di Trump, incontrandolo alla Casa Bianca pochi giorni dopo l’insediamento e lodando il suo impegno su infrastrutture e oleodotti, senza garanzie su codici del lavoro, salari e contrattazione. Il presidente di Afl-Cio, Trumka (di solito una voce forte per la giustizia razziale), ha sposato il recente discorso di Trump a Camere riunite sulla riforma dell’immigrazione. Questi atti minano il bisogno del movimento sindacale di stare lealmente dalla parte degli immigrati, combattendo la retorica razzista, gli ordini e i bandi di Trump.

Ciascun sindacato può decidere il modo più appropriato di partecipare al 1° maggio. In California, lo United Service Workers West di Seiu (più di 60mila pulitori, guardiani e aeroportuali) ha annunciato su facebook il suo sostegno allo sciopero. La United Food and Commercial Workers (lavoratori dei supermercati) e il sindacato del turismo (Unite Here) stanno preparando le loro azioni in California, terreno fertile per queste proteste, dove i Latinos superano gli anglofoni per 39 a 38 per cento.

Questi appelli allo sciopero possono diventare una valanga. Nel “giorno senza immigrati”, organizzato in fretta il 17 febbraio, decine di migliaia di lavoratori latinoamericani dei servizi sono rimasti a casa in molte città. Non ci sono ragioni per non attendersi simili forti azioni il 1° maggio. Il fervore sociale è tale che in certi settori e posti di lavoro gli scioperi sono possibili, anche con relativa impunità.

Altri sindacati stanno discutendo di partecipare in forma organizzata – anche fuori orario di lavoro. Anche solo marciare con cartelli a sostegno dei diritti dei migranti avrebbe un importante impatto sulle migliaia di loro che sfideranno la deportazione per manifestare. I sindacati, locali e nazionali, hanno l’opportunità di parlare con una sola voce in difesa degli immigrati.

A Los Angeles si possono organizzare eventi pubblici, ma importanti saranno azioni nelle zone interne, dove gli immigrati possono sentirsi più isolati che nelle coste. Alcuni sindacati hanno già cominciato corsi di solidarietà “Conosci i tuoi diritti” per preparare i lavoratori ai blitz del Controllo Immigrazione nei posti di lavoro e nelle abitazioni. Le sedi sindacali potrebbero diventare “luoghi d’asilo” per gli irregolari. Ed è il momento giusto per finanziare i gruppi per i diritti degli immigrati.
Il 1° maggio è la giornata internazionale della solidarietà tra i lavoratori, una festa nata dalla lotta per la giornata di 8 ore. Quest’anno può essere proclamato con entusiasmo come attacco alle politiche anti immigrazione di Trump. Soprattutto, è un giorno per cementare l’alleanza tra i lavoratori e gli immigrati.

Un’altra idea di Europa - di Stefano Palmieri

 

Il sessantesimo anniversario dei trattati di Roma avviene in una delle fasi più delicate dell’esistenza dell’Unione europea, chiamata ad affrontare una crisi multipla. Si pensi agli elevati livelli di disoccupazione giovanile in alcuni paesi, alla stagnazione economica, alla Brexit, ai ricorrenti dubbi sulla tenuta dell’euro, alle crescenti ineguaglianze, all’emergenza dei rifugiati, alla gestione dei flussi migratori, all’emergenza sicurezza, alla crescente disaffezione nei confronti dell’Ue e alla relativa ondata nazionalista e populista.

Una crisi multipla, innescata dalla crisi finanziaria ed economica avviata nel 2008, che ha contribuito ad acuire le contraddizioni esistenti all’interno dell’Ue. Una crisi che, mal gestita all’interno dell’Unione dalla Commissione, dal Consiglio e dai governi degli stati membri, ha contribuito ad amplificare e prolungarne gli effetti negativi. Una crisi che si traduce essenzialmente in una crisi di solidarietà all’interno dell’Unione stessa.

Non è un caso che il libro bianco sul futuro dell’Europa, presentato da Juncker il primo marzo scorso, si apra richiamando una frase di uno dei padri fondatori: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costituita tutta insieme. Essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto” (Robert Schuman, 1950). Da tempo ormai l’Ue ha smesso di essere ciò che l’aveva contraddistinta: un campione di coesione sociale. Lo dimostrano i divari territoriali economici e sociali che vanno sempre più ampliandosi da nord a sud e da est a ovest. Proprio sulla affermazione di una reale solidarietà europea occorre ripartire, ponendo come priorità la costruzione di un pilastro europeo dei diritti sociali che ponga al centro il lavoro.

Questo significa predisporre le condizioni migliori per affrontare i mutamenti in atto nel mondo del lavoro. Sia i cambiamenti dettati dalla crisi, sia quelli di natura strutturale derivanti dalle innovazioni nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Occorre rilanciare con forza – a livello europeo – un’efficiente ed efficace politica di formazione e di ri-qualificazione in grado di coinvolgere tutti i lavoratori, per tutto l’arco della loro vita professionale, per implementare e valorizzare l’inestimabile ricchezza data dalle loro capacità professionali.

Occorre poi assicurare un sistema di welfare in grado di garantire una reale protezione ai cittadini europei da quei rischi che non possono essere sostenuti individualmente. Un welfare non più inteso come un costo per la collettività, bensì come una risorsa in grado di implementare le condizioni economiche e sociali dei cittadini europei.
In questo contesto dovrebbe inserirsi un vasto programma europeo di garanzia contro la disoccupazione. Se è questo uno dei principali problemi che colpisce l’Unione, è importante che la stessa Ue sia in grado di fornire risposte efficaci per la sua soluzione contribuendo “a togliere l’acqua nella quale nuota oggi il populismo in Europa”. Si tratterebbe di armonizzare i sistemi nazionali, concentrando le risorse in modo da costituire un sistema comune di garanzia per la disoccupazione. Così, oltre a ridurre le disparità regionali e gli shock asimmetrici che hanno contribuito alla crisi dell’euro, si mostrerebbe ai cittadini il “volto umano” dell’Europa, come sostenuto da Giles Merritt (Friends of Europe).

Un ulteriore campo di intervento dovrebbe riguardare un grande programma europeo di investimenti pubblici infrastrutturali materiali e immateriali che – con l’applicazione della “golden rule” – sia fuori da qualunque conteggio di deficit di bilancio. Un primo filone dovrebbe essere indirizzato a garantire la manutenzione, il ripristino e l’ammodernamento del patrimonio naturale ed architettonico, nonché le reti di trasporto (ferroviario, stradale e marittimo). L’altro filone dovrebbe riguardare gli investimenti “immateriali” legati allo sviluppo delle reti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Entrambi i filoni, in collegamento con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile dell’agenda 2030, inserendosi in un reale quadro per una politica industriale europea, contribuirebbero al rilancio della competitività in Europa. Ma un’iniziativa di questo genere richiede di rivedere sostanzialmente il fiscal compact e le strozzature che comporta nei bilanci degli stati e degli asset produttivi di uno stato membro.

La crisi dell’Europa è anche crisi della visione strategica del futuro che essa si vuole dare. Non bastano certamente i cinque scenari indicati nel libro bianco di Juncker. Occorre che l’Europa torni ad esercitare quel ruolo guida – che ha espresso per tutta la seconda metà del secolo scorso - forte di un modello di coesione economica sociale e territoriale che oggi ha purtroppo perso.

Carrefour non chiude mai - di Frida Nacinovich

 

Quando si tratta di fare affari, le multinazionali della grande distribuzione non guardano in faccia nessuno. Carrefour non fa eccezione e conferma la regola. L’ultima frontiera è il punto vendita aperto giorno e notte, ventiquattro ore su ventiquattro, come se fosse un autogrill sull’autostrada. La chiamano liberalizzazione degli orari, per chi ci lavora si traduce nell’ennesimo spezzettamento dei tempi della vita quotidiana. “Andrà a finire che ci faranno aprire per tutto il giorno anche a Natale, con tanti saluti al pranzo in famiglia e alla messa”, commenta amaro Carlo Morciano. Quindi i lavoratori Carrefour non andranno in Paradiso? “Mettiamola così: il supermercato, l’ipermercato, il centro commerciale, sono diventati la cifra stilistica della contemporaneità. Dei tempi che stiamo vivendo, della crisi che precarizza tutte le attività lavorative”.

Morciano lavora poco lontano da Roma, nella zona dei Castelli, nel supermercato di via Nettunense. Ha quarantacinque anni, è addetto della multinazionale francese dall’inizio del secolo. Diciassette anni di anzianità di servizio, passati scalando le gerarchie interne fino ad essere oggi caporeparto. Anche lui deve comunque fare i conti con la nuova organizzazione interna di Carrefour, che in parole povere vuol dire non chiudere mai. “Per dare l’opportunità a tutti i lavoratori di partecipare ad un’assemblea, bisognerebbe farne tre, sui tre turni”. Ora è il delegato sindacale della Filcams Cgil che parla, e denuncia un lavoro sempre più frenetico e frantumato.

Un problema annoso quello dell’apertura h24, al quale fino a pochi anni fa si cercava di dare risposta con accordi fra le istituzioni locali, le aziende, i delegati sindacali, i lavoratori. Linee di difesa che hanno ceduto fragorosamente di fronte all’offensiva delle multinazionali e al sostanziale via libera dei governi. “E nonostante l’orario continuato - spiega Morciano - è arrivata la comunicazione di esuberi nel settore Iper: circa 600 dipendenti e la contestuale chiusura di almeno due Iper nel nord Italia. Sono tre i formati Carrefour oltre agli Iper: Gourmet, Urbano, Attrazione”. Ma come è stato possibile? “Un turno di lavoro prevedeva 15/20 dipendenti ora ne prevede la metà, distribuiti nelle 14 ore. C’è dell’altro: Federdistribuzione e Carrefour sono unite a doppio filo nell’estenuante trattativa del rinnovo del contratto, scaduto da anni. Tanto più riescono ad ottenere i ‘francesi’, tanto più otterranno i vari Auchan, Sma, Pam, Panorama e via discorrendo”.

All’interno di uno stesso punto vendita ci sono commessi, lavoratori con contratto a termine, guardie giurate e facchini. “Quasi tutti con contratti diversi: interinali, dipendenti di cooperative, addetti diretti”. Morciano racconta la giornata tipo: “Si arriva alle 6 del mattino per dare il cambio al collega assunto dall’azienda per ricoprire la fascia oraria notturna. La guardia giurata smonta alle 5 del mattino. In quella fascia oraria sono presenti solo due addetti, un incentivo a furti e rapine. Poi arriva l’addetta alle pulizie, anche lei vittima del taglio delle ore, ma non della superficie da pulire”.

Se il settore non affonda sotto i colpi della crisi, comunque la rispecchia. “Una volta i carrelli erano stracolmi di merce, oggi la gente compra solo lo stretto necessario. Oppure sceglie i prodotti meno costosi, i marchi più scadenti. Perché - sottolinea Morciano - il supermercato è la cartina di tornasole di ciò che accade nella società. E negli anni della crisi i soldi sono sempre meno”. Ogni reparto ha un suo capo, anche se i continui tagli hanno portato a doversi arrangiare, cioè tutti fanno di tutto. “Un addetto Carrefour deve sapersi districare fra mansioni anche molto diverse. E non è semplice. Poi i diversi tipi di contratti innescano rivalità fra colleghi di lavoro. C’è chi pensa che sia lo studente squattrinato o il cinquantenne rimasto disoccupato a minacciare il suo posto di lavoro. Non è così. L’azienda usa interinali e cooperative per avere il coltello dalla parte del manico: se il lavoratore non ti va più bene, puoi sempre licenziarlo. L’inventario fiscale di fine anno, ad esempio, viene affidato ad una cooperativa di trenta persone. Non c’è niente di più brutto che vedere un cinquantenne senza lavoro che si mette a contare scatole”.

Ma è davvero indispensabile dare al consumatore la possibilità di comprare una scatola di biscotti alle tre di notte? E gli acquirenti nottambuli sono così tanti da giustificare l’apertura h24? “In termini di vendite e guadagni, il gioco non vale sicuramente la candela. Il ritorno è solo di immagine, pubblicitario. Il problema è che fra domeniche lavorative e notti non abbiamo più una vita privata”. L’intervista è finita, il supermercato resta aperto.

Inps: una gestione da bocciare - di Michele Gentile

 


Il Comitato di indirizzo e vigilanza dell’Inps ha rinviato il bilancio preventivo 2017 al presidente, negandone l’approvazione a larghissima maggioranza (il solo voto favorevole è del ministero del Lavoro: pur confermando critiche già rivolte alla gestione Inps, non poteva che esprimersi a favore). E’ il segno della grave crisi istituzionale nella quale versa l’Inps, che dura da molti anni (fin dai provvedimenti di commissariamento) e che si è aggravata nell’ultimo periodo, con la presidenza Boeri. Chiariamo innanzitutto che la bocciatura del bilancio non mette in discussione gli impegni finanziari e le prestazioni che lo Stato attraverso l’Inps eroga a pensionati e cittadini. Prestazioni che sono obbligatorie. Il bilancio, a norma di legge, potrà essere approvato dal ministro del Lavoro. Ma questo non toglie il fatto che siano in discussione il problema Inps e il suo assetto di governo.

Quali le ragioni del voto contrario? Il Civ si è mosso nella scia di quanto evidenziato dalla Corte dei Conti nella relazione sullo stato dell’istituto e delle innumerevoli osservazioni critiche sugli atti del presidente da parte dei ministeri vigilanti e del collegio dei sindaci. Il punto fondamentale si può racchiudere in un numero: la situazione economico-patrimoniale in rosso a fine 2017 per 7,8 miliardi di euro, senza alcuna indicazione di misure ed azioni da porre in essere per il superamento di tale situazione.

Questa situazione è frutto di due azioni. La prima è la grave mancanza di un provvedimento normativo del ministero dell’Economia che garantisca e trasferisca all’Inps le risorse necessarie per dare certezza anche finanziaria alle prestazioni dell’istituto: “trasferimenti a titolo definitivo” e non “anticipazioni di cassa”, che si riverberano sul debito dell’istituto. Non è un’operazione di maquillage. Con quel rosso patrimoniale potrebbe ripartire la campagna “sulla non sostenibilità del sistema previdenziale”, con tutte le ben note conseguenze. La situazione del sistema previdenziale non ha alcun problema finanziario: ciò risulterebbe ancora più evidente se, come chiede il Civ, si procedesse ad un vero bilancio con situazioni attive e passive e l’assistenza distinta dalla previdenza.

La seconda azione è quella relativa alla gestione dell’istituto: i 105 miliardi di euro di crediti contributivi riscossi, o meglio da riscuotere, da parte di Equitalia, e sui quali sono mancati atti tempestivi e evidenze di bilancio; l’opacità e la mancanza di una piena trasparenza - ancora da raggiungere, come dimostrano anche le recenti vicende giudiziarie - circa l’utilizzo del patrimonio immobiliare (15mila immobili di proprietà, per circa 3 miliardi di euro); il tema ancora gravemente carente delle attività di accertamento e repressione dell’evasione contributiva, verso le aziende come verso le pubbliche amministrazioni. E ancora, il processo di riorganizzazione dell’istituto sul quale pesano sia il ricorso al Tar, presentato dal Civ per violazione degli obblighi di legge, sia le numerose contestazioni dei ministeri vigilanti. La riorganizzazione non affronta i temi nodali per il funzionamento dell’istituto, contribuendo invece a determinare il suo peggioramento. Il principio della rotazione della dirigenza, adottato in modo ideologico, senza attenzione alla continuità dell’azione dell’ente, rischia di determinare un rallentamento della funzionalità dell’Inps.

In sostanza, il peggioramento della capacità dell’ente di dare risposte a cittadini e pensionati trova una delle sue cause nelle politiche dei governi (unificazione; tagli di spesa; blocchi delle assunzioni; politiche del personale basate sulla riduzione dei costi; esternalizzazione di servizi e funzioni), e nella scarsa attenzione al tema dei trasferimenti di risorse per permettere all’Inps di svolgere le sue funzioni. Ma accanto a ciò risalta un assetto sbagliato della governance dell’istituto – dopo gli interventi del governo Monti - e l’idea che “un uomo solo al comando”, che agisce incurante delle regole, possa produrre innovazione. Chi dissente diviene automaticamente il vecchio.

La vicenda voucher è emblematica: in un’intervista il professor Boeri ha affermato che i maggiori utilizzatori dei voucher sono i sindacati, e tra questi la Cgil. A richiesta di conoscere gli utilizzatori ha negato i dati al Civ, accampando motivi di privacy. Siamo all’uso privato e discrezionale di informazioni pubbliche. Nonostante il tentativo del presidente di sottovalutarlo - definendolo “strumentale” in quanto contrario all’innovazione presidenziale nei confronti del “vecchio”, rappresentato dalle parti sociali (un dejà vu) - il voto contrario del Civ è un voto di merito sul bilancio, che chiama in causa il governo e la presidenza dell’Inps.

A volte ritornano - di Selly Kane

 

Una larga mobilitazione unitaria contro i decreti Minniti-Orlando, un ritorno alle politiche securitarie di Maroni contro i cittadini migranti e vulnerabili.

Siamo di fronte ad un vero ritorno al passato, quando era al governo la coalizione di destra di Berlusconi e Roberto Maroni era ministro dell’interno. Da quella compagine fu attuata la politica più dura e più repressiva nei confronti dei cittadini migranti, e più in generale verso le categorie svantaggiate della nostra società come Rom, Sinti, Camminanti. A distanza di oltre sette anni, dopo una lunga stagione di mobilitazione sociale e culturale nel paese, di opposizione a quell’approccio securitario e xenofobo, comprese le norme e i provvedimenti che l’hanno sorretto, pensavamo di aver lasciato alle spalle le ronde anti-immigrati, i centri di detenzione, i rimpatri forzati.
Ci eravamo illusi. Lo dimostra la recente approvazione dei due decreti Minniti-Orlando. Due provvedimenti all’insegna del più puro spirito repressivo e securitario, volti ad accelerare la macchina dei rastrellamenti e delle espulsioni, non importa quanti e quali diritti fondamentali si violino.

Lo scopo asserito è la moltiplicazione del numero di espulsioni, nonché l’incremento dei rimpatri forzati tramite nuovi accordi bilaterali con paesi di provenienza. Ma la finalità reale dei decreti Minniti-Orlando, per quanto negata, sembra essere quella di compiacere gli umori popolari più malsani, con l’illusoria aspettativa di sottrarre terreno alla destra dichiarata: è la strategia consueta dei “riformisti” allorché sono al governo. Pur di ottenere consensi, il tema dell’immigrazione, ancora una volta, rappresenta un terreno fertile, non importa se vengono messi in discussione e violati i valori fondamentali della Carta costituzionale, o norme internazionali quali libertà, democrazia, diritti.

Ci sono violazioni palesi nei contenuti dei due decreti, a partire dall’abolizione del secondo grado di giudizio; e la mancanza di contraddittorio nel processo, poiché il giudice della Cassazione, nel decidere in merito al ricorso su un diniego di riconoscimento del diritto d’asilo, ha a disposizione solo il colloquio videoregistrato della persona richiedente asilo. Poi l’impiego dei richiedenti asilo in attività di pubblica utilità sarà di fatto una sorta di lavoro forzato, essendo concepito come uno dei requisiti per ottenere lo status di rifugiato, il che equivarrebbe a sovvertire la Convenzione di Ginevra e il diritto internazionale. L’asilo è infatti un diritto soggettivo che non può essere subordinato a imposizioni o ricatti. Non per caso vi è l’obbligo di esaminare le richieste caso per caso, tenendo conto delle storie individuali e della forma di persecuzione subita personalmente.

Per quanto riguarda il decreto sicurezza urbana, siamo di fronte a un vero manifesto del populismo penale. Prevede tra l’altro una sorta di mini-daspo messo a disposizione dei sindaci per individuare e perseguire chi viene trovato, ad esempio, a vagabondare in stazioni o centri storici; offre al questore mano libera su tutte le occupazioni abusive; se la prende con chi vende prodotti contraffatti, neanche fosse il piccolo ambulantato irregolare il problema della criminalità in Italia. Si usa in modo offensivo la parola “decoro”, implicitamente sostenendo che immigrati, rom, clochard, homeless siano indecorosi. Una vera e propria criminalizzazione dell’emarginazione e della povertà che oggi colpisce milioni di persone, italiani e migranti.

Per gestire e governare in modo efficace il fenomeno migratorio, invece di limitarsi ad un’azione di identificazione e di rimpatri di massa di eventuali stranieri in situazione di soggiorno irregolare, e di implementare ancor più l’applicazione amministrativa delle vigenti norme legislative che sono inefficaci e discriminatorie, occorre modificare le norme in vigore, incostituzionali e produttrici di irregolarità negli ingressi e nei soggiorni, lavoro nero, grave sfruttamento e dumping socio-lavorativo. A partire dal superamento dalla legge Bossi e dalla cancellazione del reato di clandestinità.

Di fronte a questa regressione sul piano culturale e dei diritti, numerose sono le organizzazioni ed associazioni, a partire dalla Cgil – finalmente in un rapporto unitario con Cisl e Uil - che intendono opporsi con forza con questa politica deleteria e pericolosa. L’assemblea pubblica del 21 marzo scorso a Roma presso l’università La Sapienza, nonché le numerose iniziative nei territori di queste settimane, stanno segnando una opposizione corale non solo ai due decreti Minniti-Orlando, ma in più generale alle politiche sbagliate in materia di immigrazione, in Italia come nell’Unione europea.

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