“Unità, umiltà”. Queste sono le parole che riassumono il congresso di Podemos che ha sancito la vittoria di Pablo Iglesias, trionfante su tutta la linea. Il partito chiude con l’era del “marketing elettoralistico” e ritorna nelle strade. Lo sguardo è rivolto, come nei primi tempi, ai movimenti e alle istanze sociali. Con una novità rispetto ad allora, o meglio con una conferma, che prima del congresso non era certa: l’alleanza politica con Izquierda Unida (Iu), il tradizionale partito della sinistra iberica.

Iglesias è stato rieletto segretario generale del partito con l’89% dei voti. Non aveva sfidanti, questo è certo, ma il dato parla da sé. E la vittoria riguarda anche tutti gli altri documenti votati. Per quanto riguarda il documento politico, la madre di tutte le battaglie, Iglesias ottiene il 56% dei voti. Lo sfidante e numero due del partito Íñigo Errejón si ferma al 33,7%, mentre gli anticapitalisti dell’eurodeputato Miguel Urbán e della líder andalusa Teresa Rodríguez portano a casa il 9%. Simili i risultati anche per quanto riguarda l’elezione del Consejo Ciudadano, il maggior organo del partito: 50,7% per la lista di Iglesias, 33,7% per quella di Errejón e 13,1% per quella degli anticapitalisti. Che si traducono in 37 consiglieri per Iglesias, 27 per Errejón e 2 per gli anticapitalisti, riavvicinatisi a Iglesias dopo essere stati i suoi principali oppositori nel primo congresso dell’ottobre 2014.

Iglesias dispone dunque della maggioranza assoluta, ora deve dimostrare di saperla gestire. E le sfide sono molte. Non sarà facile mantenere Podemos unito e forte per convertirlo, come ha ribadito Iglesias alla fine del congresso, in “quello strumento della maggioranza sociale che spinge verso il cambiamento di cui la Spagna ha bisogno”. L’errejonismo esce sì sconfitto, ma un terzo dei voti non è cosa da poco e rimarrà una voce importante nel futuro prossimo. “È un risultato allo stesso tempo dell’unità e del pluralismo”, come ha sottolineato lo stesso Errejón. Pluralismo e unità, due parole che sembravano essere scomparse dal lessico politico della sinistra.

Nuova fase comunque per Podemos, nato sull’onda del movimento del 15-M, gli Indignados, per trasformare quella rabbia popolare in strategia politica. “Abbiamo un piede in Parlamento, ne dobbiamo avere un migliaio nella società” ha ripetuto, come un mantra, Pablo Iglesias parlando esplicitamente di interventi concreti per alleviare i problemi della gente e di “solidarietà attiva”. Iglesias ha convinto proprio per l’apertura alle dinamiche sociali, con l’idea di un partito che non si racchiude nella logica parlamentare e nel gioco di potere. Con una scelta che indirizza Podemos su un terreno di sinistra. Si vuole tornare a sporcarsi le mani, insomma, provando a radicarsi maggiormente sui territori e costruire forme di mutualismo per supplire alle manchevolezze del welfare statale.

Iglesias, nella svolta impressa a Podemos, sembra tornare alle origini: ai modelli della sinistra bolivariana a lui cari, tanto che la sua stessa formazione politica/personale proviene da quell’America Latina capace di contrapporsi alle logiche neoliberiste in nome della giustizia sociale e del buen vivir. Sbagliato, invece, dipingere – banalizzando – lo scontro tra Iglesias e Errejón, utilizzando le categorie destra/sinistra. Errejón ha perso, e di tanto. Ma la sua posizione di mantenere in vita un Podemos trasversale, bramoso di conquistare i voti anche dell’elettorato più moderato, dialogante con i votanti del Psoe, che andasse veramente oltre i recinti della sinistra classica, è lontana dall’essere di “destra”. E’ stato un confronto nobile, da un punto di vista teorico e strategico, che a tratti è stato reso pubblico. I mass media hanno cercato di mostrare il partito fratturato, addirittura sull’orlo di una scissione, ed Errejón è stato lodato dalla stampa più reazionaria di Madrid, il che dimostra come il Podemos di Iglesias faccia paura. Oltre 150mila persone hanno votato on line alle primarie per stabilire il segretario di Podemos, un record in termini di partecipazione.

Staremo a vedere come finirà la storia di Podemos, se la svolta di Iglesias porterà benefici o meno in termini elettorali ma comunque, per favore, non paragoniamolo più al M5S. Podemos è un partito moderno, ma vicino e figlio, a tutti gli effetti, dei valori della sinistra. Se prima costruiva la sinistra, senza nominarla, ora la nomina, senza paure. È stata questa la sfida di Iglesias, legato più al pensiero di Gramsci, e al concetto di egemonia teorizzato dall’intellettuale e politico sardo, che al pensiero di Ernesto Laclau, a cui si ispira Errejón.

La partita del Ceta non è ancora chiusa - di Monica Di Sisto

 

Ceta: come era successo al suo fratello maggiore Ttip, il Trattato di liberalizzazione commerciale tra Usa e Ue in stand by dopo l’elezione di Donald Trump, questo ultratecnico, complesso ma potenzialmente dannoso trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Canada ha avuto le sue giornate di visibilità mediatica nel momento in cui è toccato al Parlamento europeo esaminarlo e approvarlo il 15 febbraio scorso. “Questo accordo commerciale è stato oggetto di un esame parlamentare approfondito che riflette il crescente interesse dei cittadini nella politica commerciale. Il dibattito intenso sul Ceta lungo tutto il negoziato testimonia il carattere democratico del processo decisionale europeo”, ha detto il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker subito dopo il voto (http://europa.eu/rapid/press-release_IP-17-270_en.htm).

Peccato che, però, i parlamentari europei non abbiano letto il testo nei sei anni del negoziato, non abbiano potuto commentarlo o emendarlo in corso d’opera, e che al suo frettoloso arrivo nell’emiciclo, cioè poche settimane prima del suo affrettato varo, non abbiano potuto che prenderne atto e schierarsi con posizioni più politiciste che di merito.

I neoliberisti lo hanno approvato facendone, addirittura, uno strumento di opposizione a Trump. Ma il trattato permetterà ora a oltre 40mila grandi aziende statunitensi di ottenere, attraverso le proprie sedi canadesi, di esportare a dazio zero e condizioni agevolate nel mercato europeo anche se Trump – come ha annunciato – dovesse restringere l’accesso di molti nostri prodotti d’eccellenza, campioni nelle esportazioni: dai formaggi di alto livello alla pasta, alla storica Vespa.

I socialisti si sono spaccati. La sinistra e i verdi hanno tenuto duro nonostante qualche dubbio dell’ultima ora dei verdi tedeschi. Gli euroscettici ne hanno fatto la cartina di tornasole di quanto i conti sulla democrazia nel vecchio continente non tornino, visto che milioni di cittadini, economisti, esperti, associazioni, sindacati, in tutti gli Stati membri, hanno preso posizione contro il Ceta.

Ora spetta ai parlamenti nazionali ratificarlo, quando però la maggior parte di esso sarà già entrato in vigore. Sì, perché nonostante il Ceta passi ora all’esame di ben 38 assemblee nazionali e regionali, per oltre l’80% delle sue previsioni sarà già operativo. Per quanto riguarda dazi e dogane, siamo a tassi addirittura superiori: quando l’accordo entrerà in vigore, l’Ue e il Canada elimineranno subito rispettivamente il 92,2% e il 90,9% delle loro tariffe agricole, taglio che salirà rispettivamente al 93,8% e 91,7%, dopo un periodo di transizione di sette anni. E parliamo del settore più protetto. La media del totale delle linee tariffarie eliminate, infatti, arriva al 99%, che per i paesi membri si traduce in una perdita secca e immediata di entrate da dazi non riscossi pari a 311 milioni di euro annui.

Per quanto riguarda i servizi invece tutto è liberalizzato, tranne ciò che è esplicitamente protetto nelle liste negative allegate. L’Italia, abbastanza suggestivamente, ha deciso di proteggere al livello attuale, includendoli nell’allegato 1: la distribuzione; nei servizi alle imprese, il testing tecnico e i servizi di analisi, i servizi di sicurezza, i servizi scientifici e di controllo dei livelli tecnici relativi; per le professioni, i servizi legali, di accounting e prenotazione, di auditing, di consulenza fiscale, di architettura, quelli medici e psicologici, ma non quelli ingegneristici nè quelli infermieristici, fisioterapici e paramedici; nel turismo, le guide turistiche; nei trasporti, il solo trasporto marittimo e i servizi ausiliari connessi; per l’energia, nulla; nella finanza, solo le assicurazioni; nei cosiddetti “non servizi”, i media registrati; nulla rispetto alla sanità; nell’istruzione, la sola istruzione universitaria.

L’Italia ha deciso di riservarsi il diritto di regolare ulteriormente, listandoli nell’allegato 2: i servizi di collocamento; i servizi di trasporto stradali; i servizi di assicurazione e bancari per il settore dei servizi finanziari; la pesca e l’acquacoltura; i servizi educativi finanziati dai privati; fortunatamente i servizi sociali. Il tutto, però, senza alcuna adeguata discussione pubblica e senza che il Parlamento italiano abbia potuto esprimere a riguardo nemmeno una virgola di incisivo e rilevante.

La palla ora passa di nuovo a noi, e in un periodo dai toni preelettorali sarà bene, per chi vorrà essere rieletto, farci capire in quale Europa pensa di farci vivere: in quella della demagogia economicista del Ceta, o in un progetto politico più inclusivo e più convincente di così?

Se si esclude il settore dell’edilizia, ove, grazie al ruolo contrattualmente assegnato alle Casse Edili, è storicamente consolidata una forte presenza sindacale, nel mondo vasto e articolato dell’artigianato la capacità di penetrazione e di rappresentanza da parte delle organizzazioni sindacali ha sempre incontrato una molteplicità di ostacoli.
Da un lato, le caratteristiche del rapporto tra datore di lavoro e lavoratori delle piccole e micro imprese, improntato ad un clima prevalentemente di tipo collaborativo, e con l’enorme difficoltà nell’esercitare il diritto all’assemblea, giacchè sino alla legge 108 del 1990 non c’era alcun elemento di deterrenza rispetto al licenziamento verbale del lavoratore. Dall’altro lato, una storia di relazioni sindacali assai stentata nel suo decollo: basti pensare che il primo accordo interconfederale risale solo al 1964, e il primo contratto nazionale dei metalmeccanici artigiani e istallatori fu stipulato nel 1968.

Ma se il nostro sistema economico produttivo, dopo la scomparsa dell’Italia industriale - per riprendere la lucida disamina compiuta da Luciano Gallino nel 2003 per Einaudi - vede la prevalenza delle piccole e micro imprese (con il 46,9% degli addetti occupati nel 2011 in aziende da 0 a 9 dipendenti e il 20,3% in aziende da 10 a 49 dipendenti), evidentemente si impone la necessità di misurarsi ed interagire positivamente, anche con strumenti non tradizionali, con una diversa composizione del lavoro dipendente.

Una utile ricognizione in questa direzione la compie il recente libro “Frammenti da Ricomporre” (Nerbini, pagine 237, euro 14) di Franco Fedele e Mario Giaccone, a partire dall’analisi delle ragioni per cui dagli anni ‘80 sono vistosamente cresciuti gli accordi di natura interconfederale, sedimentando sui territori una variegata serie di esperienze a proposito degli interventi nel caso di crisi aziendale, di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché di formazione continua.

Il punto di svolta nelle relazioni sindacali è da rintracciare nell’accordo interconfederale del 1988, che, a partire dalla gestione delle 20 ore di riduzione di orario previste dal “lodo Scotti “del gennaio 1983, comportò l’istituzione degli enti bilaterali, attraverso il Fondo per la tutela della professionalità artigiana (Ftp), e quello per sostenere l’attività dei rappresentanti territoriali (Facl), designati a loro volta da ciascuna organizzazione sindacale. Ciò che ha determinato questa innovazione è l’emergere di due fattori concomitanti: al di là della retorica “ piccolo è bello”, la piccola e la micro impresa riconoscono di essere vulnerabili nell’ambito della concorrenza dettata dal mercato, anche per il venir meno di qualsiasi collateralismo politico. Mentre le organizzazioni sindacali, prendendo atto che la riunificazione del mondo del lavoro teorizzata in più di un documento congressuale è assai difficile da attuarsi, intravedono la possibilità di entrare in comunicazione con l’altra faccia, meno garantita e protetta, del mercato del lavoro.

Un’altra faccia del mercato del lavoro che apparentemente non manifesta un impellente bisogno di sindacato, divisa come è al suo interno tra una parte che ha una forte identificazione con il suo lavoro ed un’altra parte - quella operante soprattutto nel lavoro per conto terzi - che svolge lavori di bassa qualità e con una magra soddisfazione.
La mutualizzazione di una serie di prestazioni in grado di rispondere alle esigenze concrete di ambo le parti è pertanto il punto di mediazione del “compromesso sociale” che orienterà la dinamica della contrattazione anche negli anni recenti, contraddistinti dalla crisi che ha investito le produzioni mature di molti distretti industriali.
Con l’accordo del 2009 le prestazioni offerte dalla bilateralità diventano un diritto contrattuale riconosciuto in una logica universale, mentre nel 2016 con la costituzione di Fsba (il fondo interprofessionale) e, a livello lombardo, la nascita di Wila (il welfare integrativo per l’artigianato) si estendono le tutele in caso di mancanza di lavoro a tutta la forza lavoro occupata, e si recupera, come sostiene Giacinto Botti, il concetto di “salario sociale”.

Non è casuale che il capitolo conclusivo del libro si concentri su una riflessione inedita, in questi tempi segnati dalle logiche disgreganti del mercato, sull’intreccio tra bilateralità, nuove pratiche di mutuo soccorso indagate su scala europea, e una convinta riaffermazione del valore della solidarietà tra eguali.

 

Kobane,  la solidarietà fa Staffetta - di Frida Nacinovich

 

Ci sono storie da raccontare, anche se non vanno sulle prime pagine dei giornali. Perché si parla sempre più di muri e sempre meno di ponti, perché nel mondo globalizzato va di moda chiudere le frontiere, perché la guerra c’è sempre anche se si fa finta di nulla. C’è poi chi dice no, come nella canzone di Vasco Rossi, e diventa staffetta sanitaria nella prima linea del Rojava. È il caso di Emanuele Noviello, pubblico dipendente e attivista della Fp Cgil di Roma. “Nel dicembre 2014 - racconta - Uiki e Rete Kurdistan Italia chiesero a associazioni, movimenti e singoli cittadini di impegnarsi ad aiutare politicamente e con iniziative concrete la lotta di Kobane contro Isis”.
Come è iniziata l’avventura degli italiani solidali? “La prima ‘missione’ è stata quella di Suruc in Turchia, a pochi chilometri da Kobane, dove si combatteva strada per strada - spiega Noviello – e 200mila persone si erano rifugiate nelle zone curde. La Carovana di solidarietà ha fatto arrivare farmaci e attrezzature mediche portatili. Dopo le prime Staffette, altri medici ed infermieri volontari sono intervenuti a Suruc. Fino a quando, battuta l’Isis, gran parte della popolazione è riuscita a rientrare a Kobane”.

Da allora le Staffette hanno lavorato lì, nella prima linea del conflitto. “Sì – racconta Noviello - ma solo dopo aver avuto uno speciale permesso dalla rappresentanza Onu, per consentire al personale sanitario di attraversare il confine con la Turchia. L’accoglienza delle popolazione e dei sanitari a Kobane, e la possibilità di vedere con i nostri occhi e raccontare la ‘rivoluzione del Rojava’, ci ha emozionato. Abbiamo continuato a portare medicine e piccole attrezzature da soli e con le successive Carovane, e qualche altra Staffetta è arrivata a Kobane. Fino a quando il confine turco è stato sigillato da Erdogan”.

A questo punto cosa avete fatto? “Siamo passati dall’Iraq, da Erbil. Le Staffette sono state ‘prese in consegna’ dal personale di una Ong che le ha portate al confine e aiutate con i permessi. Senza di loro non avremmo potuto riprendere il lavoro, stiamo molto attenti ad assicurare le migliori condizioni di sicurezza: quasi sempre per le persone che partono con noi questa è la prima esperienza di solidarietà attiva”.

Avete avuto difficoltà anche nel Kurdistan iracheno? “Ne abbiamo avute - sottolinea Noviello - perché i vertici politici del Kurdistan iracheno sono compromessi con la Turchia. Questo territorio è governato dal ‘clan Barzani’, che è di ascendenza sunnita, come i turchi, mentre un’altra porzione è governata da Talabani”.

Domanda d’obbligo: perché gli attacchi agli ospedali, che dovrebbero essere le uniche zone franche nel teatro del conflitto? “Isis ha fatto terra bruciata ovunque è passata. A parte il Rojava, difeso dalle forze di protezione popolare, nelle altre zone di guerra sono stati presi di mira anche gli ospedali. Per giunta i turchi hanno impedito alle ambulanze di soccorrere i feriti e persino di seppellire i cadaveri”. Una realtà terribile. Ma non avete desistito. “Nel giugno scorso - aggiunge Noviello - i medici e gli infermieri sono stati tenuti fermi alla frontiera per 10 giorni, con la promessa quotidiana di passare il giorno dopo. Alla fine il permesso per entrare è arrivato, ma solo quattro giorni prima della data della scadenza. Un segnale chiaro di cui abbiamo dovuto tenere conto”.

Quali iniziative portate avanti oltre alle Staffette? “In Rojava si sta cercando di costituire un sistema sanitario autonomo, e per questo supportiamo il progetto di Mezzaluna Rossa - Kurdistan Italia di raccolta di risorse finanziarie per costruire un Piccolo Ospedale a Tell Temr (https://buonacausa.org/cause/un-ospedale-per-il-rojava), e abbiamo avviato un’iniziativa di collaborazione didattica con le Accademie del Rojava”.

Come pensate di finanziare questi progetti? “Mezzaluna ha avviato un’iniziativa di crowdfunding via web - spiega ancora Noviello - noi stiamo avviando altre iniziative che coinvolgono i territori ed i nodi di Rete Kurdistan: la produzione di un cd con canzoni dedicate alla resistenza kurda, la vendita di arance fornite sottocosto da Sos Rosarno. Lo scorso anno abbiamo imbottigliato e venduto mille bottiglie di vino di produttori No-Triv”.

Come possiamo aiutare le Staffette? “Sono essenziali le iniziative di solidarietà che partendo dal basso coinvolgano media ed istituzioni, fino a quelle europee che potrebbero avere un effettivo impatto sul futuro del Rojava e delle aree in Turchia, Iraq e Iran in cui vivono quasi 50 milioni di curdi”. La guerra va avanti, di staffette sanitarie c’è sempre un gran bisogno. Nonostante i pericoli e la difficoltà di muoversi in un territorio storicamente conteso e di grande importanza geopolitica. In bocca al lupo, Staffette.

Donne in preda a una crisi di… lavoro - di Donata Ingrillì

 

Era il mese caldo del luglio siciliano 2008. In quell’afa asciutta si gelò il sangue di centinaia di lavoratrici: paura, incredulità, smarrimento, scaraventate in un incubo dal quale non sarebbero più uscite. “Mi sono sentita franare il terreno sotto i piedi, crollavano tutte le mie certezze”, racconta Tina Traviglia, iscritta alla Cgil dal 1989, addetta a confezione e campionatura, “guardavo indietro e ‘ripassavo’ il mio lavoro alla macchina da cucire, la prima busta paga, i primi soldi veri guadagnati con fatica ma anche con l’entusiasmo di chi crea un capo con un marchio di qualità, ‘Castello’. E adesso…”.

Si annunciava la chiusura dell’Ite e della Camiceria “Castello”, realtà produttiva nata nel Comune di Brolo (Messina), marchio d’eccellenza che in 40 anni aveva varcato i confini nazionali, con 100 negozi in Italia e Svizzera, esportando in tutta Europa e creando occupazione qualificata, per il 90% femminile. Falliva un sogno cominciato a metà degli anni ‘70, su iniziativa di piccoli e medi imprenditori, spesso artigiani, e con il lavoro di migliaia di giovanissime ragazze. Un piccolo boom economico che aveva l’ambizione di diventare grande.

“Lavoravamo alla Castello dal 1994 e percepivamo la paga prevista dai Ccnl, cosa più unica che rara per una donna del sud. In famiglia eravamo quelle che avevano il reddito più alto e affidabile, e per questo avevamo sottoscritto a nostro nome i mutui per la casa. I mariti per lo più lavoravano in edilizia e in agricoltura, più precari e meno pagati”. Centodieci dipendenti, centodieci famiglie, un’esperienza trainante in un’area qualificabile come distretto del tessile abbigliamento, con decine di “fabbriche” piccole e medie, in una ventina di comuni con circa 100mila abitanti. Una occupazione femminile di oltre 3mila unità specializzate nella produzione “à facon” di capi per le maggiori firme nazionali. “All’inizio ci dicevamo che le cose si sarebbero aggiustate. La politica, le istituzioni, la Regione non avrebbero permesso che una attività con un tasso di occupazione femminile così alto, che distribuiva ricchezza a tutto l’indotto e sicurezza a centinaia di famiglie, chiudesse i portoni, spegnesse i macchinari e qualunque speranza di futuro. Abbiamo capito che non c’era niente da fare quando ci dissero che le banche non concedevano il credito”: esprime così la sua amarezza Angela Princiotto, operaia allo stiro. “L’incontro con il Prefetto di Messina non aveva dato risultati positivi e la Regione Sicilia non avrebbe rimesso alla ditta il milione e mezzo di euro che quest’ultima vantava per contributi mai liquidati”.

“La politica, le istituzioni ci avevano abbandonato. Accanto a noi, fino alla fine, solo la Cgil. Abbiamo difeso il lavoro con le unghie e con i denti, presidiato la fabbrica per due settimane, proposto la riduzione dell’orario, i contratti di solidarietà, tentato la costituzione in cooperativa. Niente da fare, muri di gomma: la procedura fallimentare, un copione già scritto”.

“Nel 2011 ci notificarono i licenziamenti collettivi, abbiamo pianto in silenzio. Ci avevano rubato il lavoro”, dice Sara Gregorio, reparto confezioni: “Eravamo disperate. Ognuna di noi si chiuse nel suo privato, come per sfuggire alle domande della gente, per nascondere una vergogna immotivata. Ci siamo ritrovate a fare i conti con carte e burocrazia, fine rapporto e mensilità arretrate, domande di cassa integrazione e mobilità. La maggior parte di noi aveva iniziato da giovanissima, assunte alla Castello e alla Ite tra i 20 e i 25 anni, e dopo 18 anni di fabbrica sapevamo fare solo quello, eravamo brave ma non serviva più a nessuno. Cinque anni di ammortizzatori sociali, unico mezzo per continuare a pagare i nostri mutui. Lavoro non ce n’era, se non in nero”.

“Che facciamo oggi? La maggior parte ha tra i 47 ed i 53 anni”, Sara Giardina dell’Ite ci guarda dentro gli occhi quando parla, “e una media di 18-27 anni di contributi”. Lei svolge lavori saltuari e precari, le più giovani nell’assistenza agli anziani e nei lavori stagionali. Solo una decina lavorano in piccole fabbriche del tessile abbigliamento sopravvissute alla crisi, in condizioni di precariato. Qualcuna si è riqualificata pagandosi corsi professionali per operatore socio assistenziale e sanitario. E la vita continua.

Tina, Angela e le due Sara ci sorridono con un velo di rimpianto: non doveva finire così. Non portano rancore verso chi ha voltato loro le spalle; guardano piuttosto il loro paese impoverito, dove con il tessile se n’è andata anche l’edilizia, l’agricoltura, vedono la disoccupazione schizzata alle stelle. Presagio di un futuro complicato. Ma dicono con orgoglio che il lavoro ha dato loro la dignità, e questa nessuno potrà mai portarla via.

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