Se si esclude il settore dell’edilizia, ove, grazie al ruolo contrattualmente assegnato alle Casse Edili, è storicamente consolidata una forte presenza sindacale, nel mondo vasto e articolato dell’artigianato la capacità di penetrazione e di rappresentanza da parte delle organizzazioni sindacali ha sempre incontrato una molteplicità di ostacoli.
Da un lato, le caratteristiche del rapporto tra datore di lavoro e lavoratori delle piccole e micro imprese, improntato ad un clima prevalentemente di tipo collaborativo, e con l’enorme difficoltà nell’esercitare il diritto all’assemblea, giacchè sino alla legge 108 del 1990 non c’era alcun elemento di deterrenza rispetto al licenziamento verbale del lavoratore. Dall’altro lato, una storia di relazioni sindacali assai stentata nel suo decollo: basti pensare che il primo accordo interconfederale risale solo al 1964, e il primo contratto nazionale dei metalmeccanici artigiani e istallatori fu stipulato nel 1968.
Ma se il nostro sistema economico produttivo, dopo la scomparsa dell’Italia industriale - per riprendere la lucida disamina compiuta da Luciano Gallino nel 2003 per Einaudi - vede la prevalenza delle piccole e micro imprese (con il 46,9% degli addetti occupati nel 2011 in aziende da 0 a 9 dipendenti e il 20,3% in aziende da 10 a 49 dipendenti), evidentemente si impone la necessità di misurarsi ed interagire positivamente, anche con strumenti non tradizionali, con una diversa composizione del lavoro dipendente.
Una utile ricognizione in questa direzione la compie il recente libro “Frammenti da Ricomporre” (Nerbini, pagine 237, euro 14) di Franco Fedele e Mario Giaccone, a partire dall’analisi delle ragioni per cui dagli anni ‘80 sono vistosamente cresciuti gli accordi di natura interconfederale, sedimentando sui territori una variegata serie di esperienze a proposito degli interventi nel caso di crisi aziendale, di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché di formazione continua.
Il punto di svolta nelle relazioni sindacali è da rintracciare nell’accordo interconfederale del 1988, che, a partire dalla gestione delle 20 ore di riduzione di orario previste dal “lodo Scotti “del gennaio 1983, comportò l’istituzione degli enti bilaterali, attraverso il Fondo per la tutela della professionalità artigiana (Ftp), e quello per sostenere l’attività dei rappresentanti territoriali (Facl), designati a loro volta da ciascuna organizzazione sindacale. Ciò che ha determinato questa innovazione è l’emergere di due fattori concomitanti: al di là della retorica “ piccolo è bello”, la piccola e la micro impresa riconoscono di essere vulnerabili nell’ambito della concorrenza dettata dal mercato, anche per il venir meno di qualsiasi collateralismo politico. Mentre le organizzazioni sindacali, prendendo atto che la riunificazione del mondo del lavoro teorizzata in più di un documento congressuale è assai difficile da attuarsi, intravedono la possibilità di entrare in comunicazione con l’altra faccia, meno garantita e protetta, del mercato del lavoro.
Un’altra faccia del mercato del lavoro che apparentemente non manifesta un impellente bisogno di sindacato, divisa come è al suo interno tra una parte che ha una forte identificazione con il suo lavoro ed un’altra parte - quella operante soprattutto nel lavoro per conto terzi - che svolge lavori di bassa qualità e con una magra soddisfazione.
La mutualizzazione di una serie di prestazioni in grado di rispondere alle esigenze concrete di ambo le parti è pertanto il punto di mediazione del “compromesso sociale” che orienterà la dinamica della contrattazione anche negli anni recenti, contraddistinti dalla crisi che ha investito le produzioni mature di molti distretti industriali.
Con l’accordo del 2009 le prestazioni offerte dalla bilateralità diventano un diritto contrattuale riconosciuto in una logica universale, mentre nel 2016 con la costituzione di Fsba (il fondo interprofessionale) e, a livello lombardo, la nascita di Wila (il welfare integrativo per l’artigianato) si estendono le tutele in caso di mancanza di lavoro a tutta la forza lavoro occupata, e si recupera, come sostiene Giacinto Botti, il concetto di “salario sociale”.
Non è casuale che il capitolo conclusivo del libro si concentri su una riflessione inedita, in questi tempi segnati dalle logiche disgreganti del mercato, sull’intreccio tra bilateralità, nuove pratiche di mutuo soccorso indagate su scala europea, e una convinta riaffermazione del valore della solidarietà tra eguali.