Valls è stato battuto, nel mondo del lavoro non si può che gioirne. Questo dimostra e verifica quello che sapevamo da mesi: Valls, Macron, Hollande sono minoritari a sinistra. Le leggi Rebsamen, Macron, El Khomri, e la revoca di nazionalità, hanno voltato le spalle alle aspirazioni popolari, agli ideali di giustizia sociale e democratica della sinistra. Francois Hollande non era stato eletto per questo. Fin dall’inizio del suo mandato ha ceduto, rinunciando a rinegoziare il trattato di Lisbona. Conosciamo il seguito.

Ora che fare? Hamon, Melenchon: è possibile una candidatura comune? Alcuni con sincerità e convinzione vogliono appellarsi a questo, altri vogliono semplicemente fare la commedia, come accade troppo spesso, teatrino politico ben conosciuto, recitato mille volte. Ora, se non vogliamo che l’unità sia un appello all’adunata – quindi impossibile – sono necessarie alcune condizioni per metterlo realmente ed effettivamente in opera. Sono il programma e le proposte che creano l’unità: senza programma e accordo su questo sarebbe solo un inganno.

Bisogna prendere atto che non è a tre mesi dalle sfide più importanti che si può recuperare troppo del tempo perduto. Nel corso di questo quinquennio ci sono state molte occasioni perdute dalla sinistra del Partito socialista che avrebbero forse potuto preparare in maniera diversa il 2017. Ma non piangiamo sul latte versato: non esiste la fine della storia.

Allo stato, le divergenze con Benoit Hamon per quanto riguarda i suoi orientamenti sociali sono importanti. Se il reddito universale naviga abilmente sulla constatazione che le politiche di austerità degli ultimi tre decenni hanno aggravato la disoccupazione di massa e aumentato la massiccia precarietà soprattutto tra i giovani, ciò nonostante per noi non è una buona risposta. Vecchia idea liberale rimessa alla moda negli anni’70 da Milton Fridman che ne vedeva la soluzione “per perseguire l’accumulazione capitalista senza troppe difficoltà”. Tralasciamo il fatto che in Francia lo sostengono Boutin, Lefevre, Sorman e centri studi ultraliberisti come Gaspard Koening. Veniamo al nocciolo: il postulato di partenza è la rarefazione del lavoro, anche se questa è smentita da un buon numero di economisti.

Ricordiamoci comunque che, di fronte ai progressi tecnologici, la risposta del movimento operaio è stata sempre quella della riduzione degli orari di lavoro. Più fondamentalmente il reddito universale indebolisce i salariati: bisognerebbe rinunciare a lottare per la piena occupazione? Ancora più grave: che ne sarebbe della sicurezza sociale che, questa sì, riunisce i lavoratori? Non facciamo salti nel buio, una conquista è una conquista. Certamente bisogna migliorare i nostri sistemi di solidarietà manomessi da Sarkozy e Hollande.

A rischio di non essere moderni – ma non è così grave – le risposte di sinistra alle politiche di austerità devono essere: aumento dei salari, e in particolare del salario minimo intercategoriale (Smic); pensione a 60 anni (Hamon vuole mantenerla a 62); riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore effettive e verso le 32 ore; aumento di tutti i minimi sociali, compresa l’istituzione di un contributo di 1.000 euro a tutti i giovani tra 18 e 25 anni; sicurezza sociale lavorativa, cioè uno zoccolo di diritti individuali garantiti collettivamente.

Le divergenze a questo punto sono quindi importanti. Possono essere superate dal dibattito? Dal confronto? Il futuro lo dirà. Le sfide elettorali sono quello che sono, inutile mostrare un beato ottimismo. La candidatura di Melenchon pone un problema diverso. L’accordo sull’essenziale tra le forze del Fronte di Sinistra le spinge a sostenere Melenchon per le elezioni presidenziali. Sarebbe allora incomprensibile per i cittadini e le cittadine che queste forze politiche possano non presentarsi unite alle legislative del mese successivo. Chi lo comprenderebbe? Se avvenisse diversamente, questo indebolirebbe il nostro candidato alle presidenziali e quello degli uni e degli altri alle elezioni legislative di giugno.

Ormai il tempo stringe, approdiamo a candidature comuni, ovunque nel paese amplifichiamo la dinamica del candidato Melenchon. E’ quello che si aspettano, noi crediamo, le classi popolari, per riprendere speranza e fiducia.

In “Oltre il Capitale” (Edizioni Punto Rosso, pag. 913, euro 40) Istvan Meszaros propone un’adeguata strategia socialista, oltre la “minor resistenza”.  

A ventun anni dalla sua pubblicazione londinese, avvenuta nel lontano 1995, è stata finalmente editata anche nel nostro paese, grazie all’accurata traduzione di Nunzia Augeri, l’opera fondamentale di Istvan Meszaros “Oltre il Capitale”. Che un’opera cosi ardita e complessa sia stata letteralmente ignorata dalle politiche editoriali di case editrici quali Einaudi, Feltrinelli e Laterza è indicativo sia degli effetti della deideologizzazione imperante che delle evidenti difficoltà di ricezione, determinate dal tracollo di quel marxismo storicista che è stato egemone per un lungo periodo del novecento.

Allievo di Gyorgy Lukacs, al quale nella seconda parte del libro dedica un appassionato confronto a partire da una lettura critica di “Storia e coscienza di classe”, e membro della famosa scuola di Budapest, Istvan Meszaros dimostra con questo formidabile contributo che la crisi del marxismo può essere affrontata abbandonando l’atteggiamento difensivo - quello che lui definisce “la linea di minor resistenza” - e rilanciando una adeguata strategia socialista, volta a delineare una coerente transizione, come recita il sottotitolo del libro.

D’altronde la dinamica dell’ordine metabolico-sociale del capitale è illimitatamente espansionista, incontrollabile sul piano della produzione, e intrinsecamente auto-distruttiva e distruttiva rispetto al genere umano, anche per via del ruolo predominante riservato al complesso militare-industriale. Le contraddizioni che tale ordine genera, sia nel rapporto uomo-natura che in quello uomo-donna, tendono ad acuirsi, stante la crisi strutturale che ha investito il sistema del capitale. L’assolutizzazione del valore di scambio e la tirannia del mercato - attraverso la smisurata creazione di bisogni artificiali e la “tendenza decrescente del valore d’uso dei beni” - produce un doppio sfruttamento dei lavoratori, come produttori e come consumatori, al fine di perpetuare il processo dell’accumulazione capitalistica. Altresì, mediante l’esaltazione della concorrenza e della competitività, il capitale oltre a scomporre e frammentare la forza lavoro incrementa i fenomeni della disoccupazione e della precarizzazione di massa, anche in ragione del minor bisogno di lavoro vivo e della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Pertanto la disgregazione dei legami sociali prodotta da questi fenomeni, unitamente al degrado ambientale e alla degradazione del lavoro conseguente al tasso differenziale di sfruttamento sulla base delle varie aree geografiche del globo, incrina le condizioni della riproduzione sociale del sistema.

Se non ché il comando del lavoro da parte del capitale, e il funzionamento della società nel suo complesso, non potrebbero avere quella apparente stabilità e coesione che dimostrano, se non si mette a fuoco, per Meszaros, sia il ruolo dello Stato come elemento che garantisce le “condizioni necessarie per l’estrazione di pluslavoro”, sia il peso storicamente esercitato dalla divisione gerarchica del lavoro. Ciò non toglie che l’insostenibilità sociale del sistema del capitale, e la sua minaccia per la sopravvivenza dell’umanità, siano ormai una realtà più che evidente.

Di qui la inderogabile necessità, dopo il riassorbimento da parte del mercato delle società post-rivoluzionarie e la bancarotta delle socialdemocrazie, del superamento della sua logica dominante, mediante una radicale ristrutturazione del processo di ricambio sociale. Ovvero attraverso una nuova relazione tra produzione e consumo, nonché combinando l’esigenza di una autentica pianificazione con l’affermazione di una contabilità socialista.

Nell’ontologia del lavoro prospettata da Meszaros, l’emancipazione dell’umanità si coniuga con il Marx dei “Grundrisse”, laddove “la ricchezza dell’uomo è data dal tempo disponibile”, e l’affermazione del concetto di produzione comune fa scaturire una diversa dimensione dell’utilità sociale.

 

Dare priorità alla campagna referendaria e alla discussione in tutto il paese sulla Carta dei diritti del lavoro è una scelta giusta e interamente condivisibile. Risponde in modo autorevole e dinamico ad una domanda di dignità, di cambiamento e di ascolto che è presente fra tutti i settori del mondo del lavoro, di vecchia e nuova generazione, strutturato e precario.

Se volgo lo sguardo agli ultimi trent’anni, non ricordo un posizionamento politico e strategico della Cgil così di “sinistra”: abbandono delle politiche concertative, proposte salariali contrattuali che determinino aumenti delle retribuzioni reali, rifiuto della subalternità al quadro politico, giudizio su basi di classe sulle conseguenze della globalizzazione, e altro. L’unico elemento nel quale il sindacato ha fatto come i gamberi è nei meccanismi della vita associativa. Il pluralismo programmatico, che è stata una conquista fondamentale, sta lasciando il posto al pluralismo di strutture, ai gruppi informali e, di nuovo, al tentativo di definire destra e sinistra in base al riferimento informale, vero o presunto, alle correnti del Pd e della sinistra parlamentare.

Riflettendo forse in modo inevitabile la società e senza più alcun vincolo “ideologico” e valoriale alle spalle, anche nelle nostre fila si manifestano leaderismo carismatico, plebiscitarismo, insofferenza verso il dissenso, burocratizzazione del lavoro quotidiano. L’unanimismo di facciata che ne deriva, e che si riflette nel voto bulgaro con cui vengono prese tutte le decisioni, nasconde spesso contraddizioni che dovrebbero essere disvelate e affrontate per arrivare a sintesi e mediazioni condivise nel corpo largo dell’organizzazione. Altrimenti si trasformano in fuoco che cova sotto la cenere. C’è una destra silente che subisce la linea senza mai esplicitare apertamente il dissenso e aprire una discussione. Occorre riportare la discussione sul terreno del merito. Dirimente deve essere il confronto sulla strategia, sui contenuti e sulla prassi contrattuale, sul carattere democratico e pluralista di una organizzazione che deve davvero tornare a restituire centralità a delegati e delegate.

Se il tempo è segnato dalla campagna referendaria, la vita quotidiana della nostra categoria è incardinata in una difficilissima fase contrattuale, nella quale il fronte padronale si presenta ad un tempo compatto, per la volontà dei padroni di riprendersi i diritti e le tutele conquistate in anni e anni di contratti, e disarticolato per la frammentazione delle organizzazioni padronali che si fanno concorrenza e si scindono sulla base non della offerta di servizi migliori alle imprese, ma per l’“offerta” di condizioni contrattuali più basse ai lavoratori. L’esito, o per meglio dire lo stato di stallo, dei rinnovi contrattuali nel settore dei servizi, ci interroga.

Sempre più cresce – nonostante le nostre resistenze – il peso della contrattazione di secondo livello, peraltro non esigibile per la maggioranza dei lavoratori, e diminuisce il peso del contratto collettivo nazionale di lavoro. La sua potestà salariale è messa in discussione e tende a diventare una cornice più che nocciolo e polpa del sistema di tutele e di diritti contrattuali. Cresce il peso del welfare contrattuale e si allarga la sfera di quello aziendale. Il rischio che corriamo è che, per la stragrande maggioranza dei lavoratori, il Ccnl cessi di essere un punto di riferimento, una certezza, un punto di partenza nel riconoscimento del valore del lavoro e della professionalità. L’aspetto più rilevante è il divario crescente fra l’impianto strategico e la prassi quotidiana: di questo divario, e di come rimuoverlo, dobbiamo discutere.

La Filcams Cgil ha segnato un importante livello di partecipazione ed elaborazione. La distanza tra le idee, le aspirazioni, le buone prassi, i sentimenti che la Filcams suscita e muove in forma programmatica, e le scelte quotidiane che tutti noi facciamo nella contrattazione, nelle vertenze, nell’assistenza, è questione che va affrontata. Lavoro Società non ha soltanto il compito di rappresentare e organizzare un pezzo di storia, di prassi sindacale, di idee e di valori: la lotta di classe, la società di liberi ed uguali, il sindacato come organizzatore collettivo. Lavoro Società ha il compito di far sì che questa cultura trovi anche un riconoscimento organizzativo, e ha il dovere di rappresentare un punto di vista critico e innovativo, che parte dai lavoratori per tornare ai lavoratori.

Nel momento in cui la Cgil e la Filcams si caratterizzano nella vita politica e sociale italiana come l’unico riferimento organizzato e di massa del mondo del lavoro, non ci possiamo sottrarre dall’obbligo di contribuire alla determinazione di una nuova fase dell’azione sindacale che faccia i conti con la complessità.

 

Anche i sardi preferiscono le bionde. Di casa loro, come la birra Ichnusa. Birre e buoi dei paesi tuoi. Per questo lavorare in una multinazionale come Heineken - proprietaria di una miriade di marchi - può voler dire anche continuare una tradizione. Quella della birra Ichnusa, da sempre la più venduta nell’isola, con numeri di consumo da anglosassoni.

Dalla natia Olanda, la Heineken è diventata una big player mondiale. Il fiocco rosa in Italia risale al 1974, quando acquisì lo storico marchio Dreher. Oggi il gruppo è presente in 70 paesi con 167 birrifici e 73mila dipendenti. Ha acquistato oltre 250 marchi, è al primo posto tra i produttori di birra in Europa, seconda al mondo per ricavi. Nel nostro paese è il primo produttore di birra con 5,3 milioni di ettolitri venduti ogni anno, impiega circa 2.000 addetti e opera in 4 birrifici: Comun Nuovo (Bergamo), Assemini (Cagliari), Massafra (Taranto), Pollein (Aosta).

I principali marchi del gruppo sono Heineken, la famiglia Birra Moretti (18 referenze), Dreher e, appunto, Ichnusa. Rita Cuccu ha iniziato a lavorare nella fabbrica cagliaritana nel 1990. “Ormai sono passati più di venticinque anni - racconta con un certo orgoglio - in un territorio desertificato, dove le fabbriche hanno chiuso una dopo l’altra, il birrificio di Assemini è un piccolo, ma neanche troppo, gioiello produttivo. Per noi è una delle poche realtà industriali che ci permettono di non emigrare nel continente per continuare a lavorare”.

Negli anni Rita Cuccu ha visto cambiare il panorama delle relazioni industriali, dentro e fuori la fabbrica. “Basta questo dato: rispetto a quando ho iniziato a lavorare io, il numero degli addetti è dimezzato, mentre la produzione è rimasta stabile. Anzi è aumentata. In questo scenario il jobs act sta dando il colpo di grazia. Per giunta l’attuale management sembra volersi accanire al minimo errore dei lavoratori. È di questi giorni la notizia di un collega fatto seguire da un investigatore e poi licenziato. Era in permesso con la 104. Lui avrà sbagliato, ma il ricorso agli 007 fa un certo effetto”.

In un quarto di secolo, Cuccu ha visto il passaggio della sua azienda da una singola realtà industriale, per quanto importante nell’economia della Sardegna, a filiera di una multinazionale. “Tutti i periti chimici vengono assunti dalla società come tecnici di laboratorio”. All’interno della fabbrica il lavoro è frenetico, la richiesta è sempre alta, la birra non conosce crisi. Non è la bevanda più amata dagli italiani, ma ormai ci si avvicina. Soprattutto nei mesi caldi, dalla primavera inoltrata all’inizio dell’autunno, quando il consumo cresce perché la gente la sera esce fuori, si fa una settimana di vacanza, organizza cene con gli amici. E una birra da sorseggiare c’è sempre, alle sagre come all’ora dell’aperitivo, non stona mai. “In questi periodi dell’anno l’azienda fa ricorso alla flessibilità - spiega Cuccu - vengono assunti lavoratori interinali, stagionali, anche solo per qualche settimana”. Pagati con i voucher del ministro Poletti? “No, per fortuna i voucher ce li siamo risparmiati. Non li usa neppure la ditta in appalto che fa le pulizie”.

L’età media dei lavoratori del birrificio di Assemini è alta, ben più di quella dei consumatori. “Ho 56 anni - sottolinea Cuccu - e non sono una delle più anziane. Molti miei colleghi di lavoro hanno superato i sessanta. La legge Fornero è stata una mazzata, ha bloccato il turn over, quindi il ricambio generazionale non c’è”. La rappresentanza sindacale unitaria ha un delegato per ogni sigla confederale (Cgil, Cisl e Uil di categoria). “Eppure - osserva con una punta di amarezza la delegata Flai Cgil - c’è poca cultura sindacale. La reazione alle difficoltà e al disagio, in questi lunghi anni di crisi, è sempre più individuale e sempre meno collettiva. Ognuno pensa di difendersi da solo, di andare dall’avvocato. Ma così non si fanno passi avanti tutti insieme”.

Va a finire che l’azienda ha gioco facile a mandare avanti la sua strategia produttiva, pochi addetti sempre al lavoro e ferie decise dall’alto per non rallentare la produzione nei mesi caldi. Il contratto dell’agro-alimentare garantisce uno stipendio decente alla categoria. “Non ci possiamo lamentare, soprattutto a paragone delle altre realtà lavorative della regione perennemente in crisi”. Finale orgoglioso: “Non possiamo dimenticare che produrre Ichnusa, anche se si lavora per una multinazionale come Heineken, assume un valore particolare. I miei conterranei sono fieri di vedere ancora prodotto il loro storico marchio di birra”. E un giovane ingegnere, che per laurearsi al politecnico di Milano ha dovuto emigrare nel continente, è ben felice di tornare nell’isola e contribuire al presente e al futuro di Ichnusa. La bionda più amata in Sardegna.

 

“Ieri, verso le 20.30, è stato arrestato il nominato Pavone Claudio fu Amleto (..) sorpreso mentre gettava dei volantini di contenuto sovversivo (..). Il Pavone, inoltre, è stato trovato in possesso di una borsa contenente 4 copie del giornale ‘Avanti!’, stampato alla macchia (..), recante la seguente intestazione: ‘La guerra antifascista è guerra del popolo. Il Re e Badoglio non hanno diritto di esserne a capo.’, nonché di un libro di Benedetto Croce intitolato ‘Aspetti morali della vita politica’ e di un volume di salmi tradotti dall’ebraico...”. Recitava così il mattinale della Questura di Roma del 23 ottobre 1943.

Pavone aveva allora 23 anni. Formatosi in una famiglia della borghesia meridionale liberale e in una educazione materna cattolica, assunse molto presto un atteggiamento morale da lui stesso definito di tipo giansenista, che cercò di combinare, nella giovinezza, con la filosofia etica e politica di Benedetto Croce (da lui riletta però attraverso il dialogo con Eugenio Colorni - maestro, amico e compagno di lotta nella Resistenza - e l’esperienza concreta del lavoro politico cospirativo con i ferrovieri antifascisti romani).

“Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale è implicito nel suo essere stato un atto di disobbedienza”, ha scritto Claudio Pavone nel suo libro più celebre: ‘Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nelle Resistenza’ (1991). Tuttavia ha aggiunto: “Il nesso necessità-libertà, sempre così difficile da cogliere, si presenta nella scelta resistenziale problematico e limpido a un tempo”, perché la necessità rinvia a una situazione comune a tutti, ma la libertà nasce dalla solitudine in cui si sceglie. Affrontando il problema della scelta come problema storico, Pavone proponeva una ricostruzione magistrale e una lezione etica al tempo stesso.

Studente della facoltà pisana di Lettere e Filosofia, e perfezionando di Storia della Scuola Normale Superiore, conobbi Claudio Pavone come suo discepolo, al suo debutto di docente di ‘Storia dell’Italia nel XX secolo’ dell’Università di Pisa nei primi anni settanta. In quel tempo “il discorso di una nuova libertà” - come ha scritto Pavone stesso - era sembrato riaprirsi. Per me fu naturale rispecchiarsi nella sua riflessione storiografica, che osava l’azzardo di coniugare in termini nuovi il nesso tra politica e morale, attraverso la categoria storica di “moralità”: la moralità nella Resistenza, ma anche nella lotta politica e delle idee di quegli anni 1967-76, nel durissimo conflitto sociale dell’ultima stagione di lotte nella storia del movimento operaio italiano.

Ogni uomo, in una determinata situazione (Pavone citava a tal proposito Jean Paul Sartre) è segnato dalla contraddizione tra necessità e libertà, e tenta di uscirne scegliendo di agire in un intricato groviglio di idee, emozioni, impulsi e valori che forma la nostra “moralità”: nella riflessione sulla moralità dei militanti della Resistenza, Pavone fu maestro di antideterminismo, al pari di Vittorio Foa, suo caro amico per una vita intera.

E’ stato uno storico importante e un grande archivista, dunque un esploratore di fonti, documenti, “scartoffie” (come scriveva), e un ricercatore non di discorsi ma di fatti concreti: e non vi è dubbio che, anche e soprattutto come storico, abbia valorizzato al massimo l’intrinseca importanza filologica del lavoro archivistico quale funzione di mediazione tra domanda storica, e inventario e programmazione, d’archivio. Negli anni sessanta infatti progettò e avviò, con Piero D’Angiolini, “La Guida generale degli Archivi di Stato italiani”, diretta nei tempi successivi da altri valenti archivisti, impresa che rimane un suo merito fondamentale.

Fonti, memoria e storiografia, oggi spesso confuse, costituirono dunque sempre i campi distinti della sua pratica del sapere: a conclusione di un tragitto segnato da una impressionante serie di saggi, contributi e volumi, di pochi mesi fa sono i suoi ricordi giovanili, “La mia Resistenza”.

Ma elaborazione della memoria, ricerca storica e conservazione delle cose, a partire dalle “scartoffie”, non hanno un rapporto facile, egli ammoniva: come convenne con Francesco Orlando, altro maestro e amico, in un dialogo memorabile avvenuto nel 1994, al quale ebbi il piacere di partecipare.

Storico dello Stato, delle istituzioni, dell’amministrazione e del diritto (era laureato in Giurisprudenza e in Filosofia), ha scritto forse il suo saggio più bello sulla cultura italiana, come specchio delle lacerazioni tra fascisti e antifascisti di fronte alla tradizione nazionale, al Risorgimento, a se stessa. E quando l’anti-antifascismo è divenuto una moda, la sua voce acuta e spesso incrinata dall’indignazione non ha mai mancato l’occasione di farsi sentire. Fino all’ultimo, fino alla sua morte.

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