Claudio Pavone. In memoriam - di Michele Battini

 

“Ieri, verso le 20.30, è stato arrestato il nominato Pavone Claudio fu Amleto (..) sorpreso mentre gettava dei volantini di contenuto sovversivo (..). Il Pavone, inoltre, è stato trovato in possesso di una borsa contenente 4 copie del giornale ‘Avanti!’, stampato alla macchia (..), recante la seguente intestazione: ‘La guerra antifascista è guerra del popolo. Il Re e Badoglio non hanno diritto di esserne a capo.’, nonché di un libro di Benedetto Croce intitolato ‘Aspetti morali della vita politica’ e di un volume di salmi tradotti dall’ebraico...”. Recitava così il mattinale della Questura di Roma del 23 ottobre 1943.

Pavone aveva allora 23 anni. Formatosi in una famiglia della borghesia meridionale liberale e in una educazione materna cattolica, assunse molto presto un atteggiamento morale da lui stesso definito di tipo giansenista, che cercò di combinare, nella giovinezza, con la filosofia etica e politica di Benedetto Croce (da lui riletta però attraverso il dialogo con Eugenio Colorni - maestro, amico e compagno di lotta nella Resistenza - e l’esperienza concreta del lavoro politico cospirativo con i ferrovieri antifascisti romani).

“Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale è implicito nel suo essere stato un atto di disobbedienza”, ha scritto Claudio Pavone nel suo libro più celebre: ‘Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nelle Resistenza’ (1991). Tuttavia ha aggiunto: “Il nesso necessità-libertà, sempre così difficile da cogliere, si presenta nella scelta resistenziale problematico e limpido a un tempo”, perché la necessità rinvia a una situazione comune a tutti, ma la libertà nasce dalla solitudine in cui si sceglie. Affrontando il problema della scelta come problema storico, Pavone proponeva una ricostruzione magistrale e una lezione etica al tempo stesso.

Studente della facoltà pisana di Lettere e Filosofia, e perfezionando di Storia della Scuola Normale Superiore, conobbi Claudio Pavone come suo discepolo, al suo debutto di docente di ‘Storia dell’Italia nel XX secolo’ dell’Università di Pisa nei primi anni settanta. In quel tempo “il discorso di una nuova libertà” - come ha scritto Pavone stesso - era sembrato riaprirsi. Per me fu naturale rispecchiarsi nella sua riflessione storiografica, che osava l’azzardo di coniugare in termini nuovi il nesso tra politica e morale, attraverso la categoria storica di “moralità”: la moralità nella Resistenza, ma anche nella lotta politica e delle idee di quegli anni 1967-76, nel durissimo conflitto sociale dell’ultima stagione di lotte nella storia del movimento operaio italiano.

Ogni uomo, in una determinata situazione (Pavone citava a tal proposito Jean Paul Sartre) è segnato dalla contraddizione tra necessità e libertà, e tenta di uscirne scegliendo di agire in un intricato groviglio di idee, emozioni, impulsi e valori che forma la nostra “moralità”: nella riflessione sulla moralità dei militanti della Resistenza, Pavone fu maestro di antideterminismo, al pari di Vittorio Foa, suo caro amico per una vita intera.

E’ stato uno storico importante e un grande archivista, dunque un esploratore di fonti, documenti, “scartoffie” (come scriveva), e un ricercatore non di discorsi ma di fatti concreti: e non vi è dubbio che, anche e soprattutto come storico, abbia valorizzato al massimo l’intrinseca importanza filologica del lavoro archivistico quale funzione di mediazione tra domanda storica, e inventario e programmazione, d’archivio. Negli anni sessanta infatti progettò e avviò, con Piero D’Angiolini, “La Guida generale degli Archivi di Stato italiani”, diretta nei tempi successivi da altri valenti archivisti, impresa che rimane un suo merito fondamentale.

Fonti, memoria e storiografia, oggi spesso confuse, costituirono dunque sempre i campi distinti della sua pratica del sapere: a conclusione di un tragitto segnato da una impressionante serie di saggi, contributi e volumi, di pochi mesi fa sono i suoi ricordi giovanili, “La mia Resistenza”.

Ma elaborazione della memoria, ricerca storica e conservazione delle cose, a partire dalle “scartoffie”, non hanno un rapporto facile, egli ammoniva: come convenne con Francesco Orlando, altro maestro e amico, in un dialogo memorabile avvenuto nel 1994, al quale ebbi il piacere di partecipare.

Storico dello Stato, delle istituzioni, dell’amministrazione e del diritto (era laureato in Giurisprudenza e in Filosofia), ha scritto forse il suo saggio più bello sulla cultura italiana, come specchio delle lacerazioni tra fascisti e antifascisti di fronte alla tradizione nazionale, al Risorgimento, a se stessa. E quando l’anti-antifascismo è divenuto una moda, la sua voce acuta e spesso incrinata dall’indignazione non ha mai mancato l’occasione di farsi sentire. Fino all’ultimo, fino alla sua morte.

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