Sono passati 76 anni dalla Nakba, quando centinaia di migliaia di persone in Palestina furono costrette a lasciare la loro casa e a rifugiarsi nei paesi limitrofi in campi profughi. Tutt’ora sono lì sfollati in attesa di fare ritorno, come prevede il diritto internazionale.
In questo interminabile periodo di tempo il popolo palestinese ha subito ogni forma di violenza fisica, morale, etica e culturale, è stato umiliato, emarginato, isolato e anche torturato nella sua dignità. Negli ultimi anni è stato completamente trascurato da tutti e in primis dalla comunità internazionale.
Da allora non ha mai smesso di lottare in tutte le forme, partendo dalla lotta armata fino alla diplomazia, attraversando diversi momenti anche di difficoltà, senza essere stato sconfitto nonostante i vari tentativi e i complotti contro di esso.
Nel lontano 1988, al termine dei lavori del Consiglio Nazionale Palestinese ad Algeri (il Parlamento palestinese in esilio), il presidente Arafat proclamò unilateralmente l’indipendenza della Palestina con la formula dei due Stati per due popoli. Da allora ad oggi sono state adottate decine e decine di risoluzioni delle Nazioni Unite, del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale a favore della Palestina, ma purtroppo nessuna risoluzione è stata applicata da Israele, per la complicità degli Usa e del mondo occidentale.
Alcuni dati non si possono trascurare. Prima di tutto il numero degli Stati che, dal 1988 ad oggi, hanno riconosciuto la Palestina: 146 Stati su 193 facenti parte delle Nazioni Unite. Fu l’Algeria, 1988, per la sua storia, la sua lotta e guerra di liberazione che ancora non è finita, il primo paese al mondo a riconoscere la Palestina.
Ultimamente, il 29 maggio scorso, tre primi ministri, il norvegese Jonas Gahr, lo spagnolo Pedro Sanchez e l’irlandese Simon Harris, hanno dichiarato formalmente il riconoscimento della Palestina. È una decisione storica, che ha un valore politico di grandissimo rilievo non solo dal punto di vista simbolico. I tre primi ministri hanno definito questa scelta politica “un riconoscimento necessario per favorire la pace e la sicurezza nella regione”. Informazioni riservate dicono che prossimamente altri Stati europei seguiranno Spagna, Irlanda e Norvegia. Già la Repubblica di San Marino ha avviato un percorso ufficiale per lo scambio diplomatico e il riconoscimento della Palestina in base alla legalità e al diritto internazionale.
A questo va aggiunto il consenso generalizzato dell’opinione pubblica mondiale, che fa sì che nessuno possa trascurare o giocare con l’ambiguità, come si è fatto per lungo periodo nel mondo occidentale. Oggi gli Stati devono decidere dove si collocano: con la parte giusta della storia, come hanno fatto i popoli, oppure continuare con la loro ambiguità a partire dal nostro paese, l’Italia, perché la storia non perdonerà.
Oggi il mondo intero e la comunità internazionale chiedono il riconoscimento della Palestina: è finito il periodo della promessa. Il mondo deve rendere giustizia a questo popolo e deve chiedere scusa in modo solenne a quei bambini massacrati e bruciati vivi solamente perché palestinesi. Con questa barbarie non hanno ucciso e bruciato vivi solo quei bambini, ma hanno bruciato anche la nostra dignità, il nostro essere persone libere. Ecco, allora, per ricordare quelli angeli uccisi nel sonno e perché non accada mai più ovunque, la comunità internazionale può e deve dedicare una giornata alla memoria di quei bambini.
La risposta rabbiosa di Israele è arrivata subito dopo l’annuncio dei tre paesi europei: ha richiamato gli ambasciatori a Dublino, Madrid e Oslo per “consultazioni”. E poi ha messo in atto la vendetta contro i palestinesi, cancellando di fatto gli accordi di Oslo e bruciando bambini vivi a Rafah.
Nessuno può fermare il percorso della storia, nemmeno gli Usa e, al di là del riconoscimento, la Palestina oggi è già riconosciuta e viva dentro ogni casa, in ogni angolo della terra compresi gli Usa, e dentro ogni coscienza di tutti gli uomini e donne liberi.
I circa 170mila cittadini palestinesi uccisi, feriti e dispersi, di cui il 70% sono donne e bambini secondo le Nazioni Unite, hanno svegliato la società civile in tutto il mondo, ma non hanno purtroppo svegliato la coscienza delle tante cancellerie occidentali.
Molti Stati del mondo civile occidentale, nonostante l’immane tragedia, continuano a fornire ad Israele armi, denaro, strumenti di morte, e continuano a dare copertura politica e diplomatica al governo israeliano guidato dal primo ministro Netanyahu, nonostante il mandato di cattura emesso dalla Corte Penale Internazionale a suo carico, assieme all’ex ministro della difesa Gallant.
Questo mandato di cattura ha messo in crisi le cancellerie di molti paesi occidentali, Usa in primis. Il nervosismo della Casa Bianca trova la sua motivazione nel tentativo di difendere i propri organismi politici e militari dall’essere esposti al giudizio di un potere indipendente. I crimini che hanno commesso gli Usa nelle varie guerre nel mondo potrebbero essere messi al vaglio di certi giudici non compromessi e coraggiosi. Il caso di Netanyahu è il primo di un premier di un paese alleato dell’Occidente ad essere messo sotto accusa da parte della Corte Penale Internazionale.
Non è servita a nulla la dichiarazione di non appartenenza al trattato di Roma, sulla base del quale è costruita la Corte Penale Internazionale dell’Aja. È identico il caso degli Usa, che vorrebbero rappresentarsi come paladini dei diritti umani e della democrazia.
Le cancellerie occidentali neoliberiste sono in crisi e non sanno come comportarsi e come possono rispondere. Gli Usa hanno addirittura minacciato sanzioni contro i giudici della Corte che hanno emesso i mandati di cattura, i paesi del G7, ospitati dall’Italia, presidente di turno, a Fiuggi e Anagni al livello dei ministri degli esteri, hanno chiuso il loro vertice con una conferenza finale in cui non viene nemmeno citato il mandato emesso dalla Corte Penale Internazionale contro il vertice del governo israeliano perché non hanno ancora trovato una posizione condivisa tra loro. Non solo, la Francia, il paese della “libertè, egalitè e fraternitè”, ha scordato i suoi valori e la sua storia, in cambio di essere accettata a far parte delle trattative per il cessate il fuoco nella sua ex colonia del Libano.
La Gran Bretagna, ideatrice della dichiarazione Balfour, e la Germania, con le loro rispettive storie di rapporti con Israele, hanno dichiarato che “nessuno è al di sopra della legge” e che la legalità internazionale va rispettata. Invece la posizione della presidenza italiana di questo G7 è insignificante e antistorica, dato che tutto questo trova la sua matrice proprio nel trattato di Roma: “L’arresto non serve”. Addirittura Salvini ha dato il benvenuto a Netanyahu in Italia, allo stesso modo di Orban per l’Ungheria. La presidente del Consiglio Meloni, amica dichiarata di Netanyahu, critica il verdetto della Corte, dichiarando che non si possono mettere sullo stesso piano Israele e Hamas.
Ciò nonostante, l’isolamento di Israele è generalizzato: a parte Usa, Argentina e Ungheria, e la confusione dei governanti italiani, il mondo intero, sia quello ufficiale e governativo che della società civile, ha accolto con favore il verdetto della Corte Penale Internazionale, pretendendo la sua applicazione integrale.
Il 2 dicembre scorso, alla 23sima Assemblea degli Stati membri della Corte Penale Internazionale, la presidente Tomoko Akane ha denunciato pressioni, minacce e intimidazioni anche al personale della Corte. Ha ricordato che adempiere ai mandati della Corte è un obbligo per gli Stati membri, che in caso di dubbi devono rivolgersi alla stessa Corte per dirimerli. Ha denunciato quegli Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu che minacciano sanzioni e intimidazioni di vario tipo. Ha ricordato che, se cade la Corte Penale Internazionale, cade lo stesso Diritto Internazionale, e avvertito che il diritto e la giustizia internazionali sono in pericolo e, con essi, il futuro dell’umanità.
Il 4 dicembre scorso l’Assemblea Generale Onu ha votato una storica risoluzione a favore dello Stato di Palestina, nella quale chiede il ritiro dai territori occupati e l’evacuazione dei coloni. Sono 157 gli Stati che hanno votato a favore, otto contrari e sette astensioni. Questa risoluzione mette le basi per la celebrazione della “Conferenza Internazionale di alto livello per la soluzione pacifica della questione palestinese e l’attuazione della soluzione dei due Stati”, che si terrà dal 2 al 4 giugno 2025 a New York. Il documento chiede ad Israele di “cessare immediatamente e completamente ogni forma di violenza, compresi gli attacchi militari, le distruzioni e gli atti di terrore” e le “nuove attività di insediamento” nei territori palestinesi occupati, di evacuare tutti gli insediamenti e mettere fine alle loro azioni illegali. Infine ricorda allo Stato d’Israele, in quanto forza occupante, che deve rispettare gli obblighi descritti nel parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia.
La Palestina ha bisogno del riconoscimento formale e sostanziale da parte dell’intera comunità internazionale, che deve rendere giustizia al popolo palestinese senza ambiguità, perché sarà giudicata dalla storia e dall’attuale e futura generazione.
Si chiamava Palestina, si chiama Palestina, sarà chiamata Palestina! l
(6 dicembre 2024)