Intanto l’opinione pubblica si interroga sull’obbligo o meno del velo nella nuova Siria.
Domenica 8 dicembre era un inquietante segnale premonitore di quanto poteva presto accadere il fatto che un veicolo turco da combattimento senza equipaggio (Ucav) aveva bombardato la zona in prossimità del ponte Qereqozaq ,che unisce le due sponde dell’Eufrate nel sud di Kobanê. Infatti, nella notte di domenica 8 dicembre un nuovo attacco di droni turchi contro il villaggio di El Mustareha, a ovest di Ayn Issa, causava la morte di almeno dodici persone, tra cui alcune donne e sei bambini (notizia dell’agenzia Anha).
Una conferma – se ce ne fosse stato bisogno – delle priorità dello Stato turco in Siria: annichilire l’Aadnes (Amministrazione Autonoma Democratica del Nord e dell’Est della Siria) intensificando gli attacchi contro tutto il nord della Siria, costringendo migliaia di persone (curdi, ma non solo) a emigrare per salvarsi la vita.
Dopo, tra lunedì 9 e martedì 10 dicembre, è stato un crescendo di attacchi, bombardamenti e altro a più riprese. Con il solito corollario, uno stillicidio di vittime civili nei territori amministrati dall’Aadnes. Mentre anche i media convenzionali si accorgevano della battaglia di Manbij, (il 10 dicembre, dandola per “caduta” nelle mani dei “ribelli”, alias mercenari jihadisti filo-turchi), la situazione continuava a deteriorarsi.
Dall’8 dicembre sera le strade di Manbij (sia le periferie che il centro) si trasformavano in un campo di battaglia tra Cmm (Consiglio militare di Manbij) e Ans (Esercito Nazionale Siriano, i giannizzeri di Ankara). Tra le scarne notizie di cui si è venuti a conoscenza, la distruzione a Manbij di un blindato turco di tipo Bmc Kirpi e di un altro veicolo. Altri due veicoli sono stati distrutti a Dêr Hafir.
In questi frangenti molti mercenari sono stati abbattuti e altri presi prigionieri. Tuttavia l’avanzata degli ascari dell’Ans procedeva contando sul supporto dell’aviazione turca, che ha colpito ripetutamente, devastandoli, sia la città che i villaggi circostanti e anche le zone di Qereqozaq e Sirîn.
Gli attacchi degli aerei e dei droni turchi non sono rivolti solo contro le aree di combattimento, ma anche – o forse soprattutto – contro la popolazione civile. A Zirgan i droni hanno ucciso alcune persone (compresi dei contadini che stavano lavorando nei campi) e ferito molte altre (trasportate all’ospedale di Dirbêsiyê). Contemporaneamente i droni turchi colpivano un reparto di soldati siriani in fuga, uccidendone quarantacinque su sessanta.
Altro tragico episodio, l’attacco a un veicolo civile lungo la strada che collega Zirgan a Dirbêsiyê, provocando tre feriti. Uno di loro, Ihemed Ewad di 53 anni, è ora ricoverato all’ospedale di Dirbêsiyê, gli altri due (molto gravi) in un centro medico di Hesekê (la precisione con cui vengono riportati nomi e dati anagrafici dipende dalla volontà di fornire elementi verificabili).
Infine, per ora, la terribile notizia diffusa dal Sohr (Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo) il 10 dicembre mattina. Miliziani che partecipano all’operazione (a supervisione turca) denominata “Alba di Libertà” hanno assassinato decine di combattenti feriti del Consiglio militare di Manbij (Cmm, alleato dei curdi) ricoverati nell’ospedale militare a nord della città. Un ospedale che era stato posto sotto assedio, impedendo l’evacuazione dei feriti. I video del massacro, girati dagli stessi jiahdisti filo-turchi, sono stati poi diffusi sulle loro reti sociali. Si tratterebbe sia di membri del cosiddetto Esercito Libero Siriano, sia di miliziani che sulle divise ostentavano simboli dell’Isis (senza che questo ne escluda l’appartenenza all’Ans).
Sempre secondo il Sohr, gli stessi miliziani si abbandonano al saccheggio, all’incendio delle abitazioni curde (sono circa 300mila le famiglie curde a Manbij), ed hanno assassinato diversi abitanti della città in base all’origine etnica.
Una preoccupante escalation, sia di combattimenti sul terreno che di attacchi aerei a cui l’opinione pubblica internazionale (i movimenti, la sinistra o quello che ne rimane) dovrebbe reagire con la mobilitazione. Per prevenire quella che a tutti gli effetti si preannuncia come un’altra Gaza, con i curdi e le altre popolazioni ‘minorizzate’ del nord e dell’est della Siria destinati alla medesima sorte (genocidio, pulizia etnica...) dei palestinesi. O qualche “campista” pensa ancora che Erdoğan sia meno feroce di Netanyahu?
Sia ben chiaro: la caduta di Manbij nelle mani delle bande jihadiste filo-turche, apre la strada per Kobane, la città martire (definita “l’incubo di Erdogan”), che aveva sconfitto Daesh. Quanto alla Siria in generale, forse è ancora presto per stabilire se diventerà “l’Afghanistan del Medio Oriente” come paventa sulle colonne di Duvar il giornalista Fehim Taştekin. Tuttavia, visto che ora chi comanda a Damasco (sotto la tutela di Ankara) è un’organizzazione sostanzialmente jihadista (Hayat Tahrir al-Sham, versione edulcorata di Jabhat al-Nusra), sarebbe il caso di chiederselo.