Moussa era scappato nel 2014 dal Mali, dove da due anni infuriava la guerra civile. Sognava di ritornare, sperava di rivedere la sua casa, la famiglia e la sua fidanzata. La sua storia ci fa riflettere su razzismo, accoglienza, immigrazione, retorica del “noi/loro”, decreti sicurezza, centri in Albania.
La vicenda della morte di Moussa e gli ultimi aggiornamenti
Sono passati quasi due mesi dalla morte di Moussa Diarra, il ventiseienne maliano ucciso da un proiettile davanti la stazione Porta Nuova di Verona lo scorso 20 ottobre. Le prime notizie fornite dai giornali parlavano di uno straniero rimasto ucciso dopo aver aggredito un agente con un coltello. Il giorno stesso esce un comunicato congiunto di Procura e Questura di Verona in cui si parla di persona straniera autore di danneggiamenti e violenze durante la notte, che alle prime ore del mattino si sarebbe scagliato contro un agente della Polfer, che per legittima difesa ha risposto esplodendo tre colpi, di cui uno finito al cuore. Nel comunicato si dichiara che tutte le telecamere presenti sono al vaglio della Procura, l’indagine potrà quindi avvalersi di riscontri oggettivi.
La vicenda ha acceso fin da subito molte reazioni, già nelle ore successive sono girati centinaia di messaggi, anche da parte di politici e giornalisti, invocanti lo stato di insicurezza e la giustizia fatta. Forte è stata anche la reazione di chi ha manifestato solidarietà e vicinanza alla storia di Moussa. In migliaia hanno partecipato insieme agli amici, alla comunità maliana e a diverse associazioni del territorio al corteo pacifico del 26 ottobre, in cui si chiedeva giustizia e un’inchiesta seria e indipendente.
Nelle scorse settimane la stampa locale pubblica alcuni dettagli della vicenda. In particolare è stata divulgata la notizia (Telenuovo), poi rilanciata a livello nazionale anche da Tg5 e Libero e alcuni politici, che Moussa sarebbe stato ripreso nell’intento di accoltellare il poliziotto da distanza ravvicinata, confermando la tesi della legittima difesa. E’ stato anche riportato (Il Gazzettino) di presunte testimonianze e filmati che dimostrerebbero una precedente aggressione, verso le cinque del mattino, ai danni di una pattuglia della polizia locale. Nonostante non siano mai state chiarite le fonti, le dinamiche della vicenda sembrerebbero chiare e il processo già concluso.
Dopo queste notizie, il 12 novembre è stata indetta una conferenza stampa sul luogo dell’uccisione in cui sono intervenuti le avvocate della famiglia Diarra, il fratello e il console maliano, per chiedere garanzie procedurali per rendere trasparente l’accertamento della verità. La conferenza ha toccato alcuni punti critici, le avvocate (Malavolta e Campostrini) hanno affermato di non avere accesso alle immagini di videosorveglianza, nonostante le richieste depositate e sempre rigettate per questioni di sicurezza e con il silenzio d’indagine.
Il caso ha attirato l’attenzione della senatrice Ilaria Cucchi, che il 22 novembre ha partecipato alla conferenza stampa in Senato e chiesto che venga fatta piena chiarezza sull’accaduto. Durante gli interventi è stato ribadito che, ad oggi, le uniche immagini disponibili sono quelle delle prime fasi, mancano quelle del momento della sparatoria. La dinamica non è chiara, dalla perizie alcune informazioni: due dei tre colpi sparati per fermare Moussa erano ad altezza d’uomo, uno lo ha colpito al cuore, un altro si è infranto nella vetrata del piazzale. Sul cappuccio del giubbotto c’è il foro di un proiettile. L’aggressione ravvicinata non è stata confermata dai periti balistici.
In un altro articolo (Il Gazzettino) viene scritto che la telecamera più vicina alla zona dell’uccisione non fosse in funzione, non c’è un video ravvicinato dei momenti fatali in cui sono stati esposi i tre colpi.
La storia di Moussa è la storia di molti altri
Moussa era scappato nel 2014 dal Mali, dove da due anni la guerra civile stava provocando migliaia di morti e sfollati. Come tanti altri ha attraversato il deserto algerino per raggiungere la Libia insieme al fratello, che lì ha perso la vita. Viene detenuto e torturato nei centri di detenzione per migranti, da dove si può uscire solo pagando. Dopo quasi due anni di lavoro, riesce a comprare un passaggio su un’imbarcazione verso l’Italia, con tanti altri senza alternativa se non quella di rischiare la vita per esercitare il proprio diritto alla fuga, alla mobilità, alla possibilità di costruirsi altrove una vita più sicura. Arriva a Lampedusa nel 2016, presenta richiesta di protezione internazionale e viene trasferito a Verona, dove viene accolto nel Cas di Costagrande, tristemente noto per il sovraffollamento.
Moussa ha dovuto chiedere asilo due volte dopo che la sua protezione umanitaria è stata cancellata dal ‘decreto Salvini’, e per ben due volte, nonostante tutte le difficoltà e le lungaggini, l’aveva ottenuto. Pur con contratti precari Moussa lavorava e sosteneva la sua famiglia in Mali. Negli ultimi tempi lavorava nei campi senza contratto, aveva un credito con il datore di lavoro che non lo ha pagato. Stava anche vivendo il lutto della morte del padre, deceduto tre mesi prima della sua uccisione, e non era riuscito a comprare il biglietto per tornare a casa e partecipare al lutto.
Da qualche tempo Moussa era ospitato alla Casa del Ghibellin Fuggiasco, uno spazio occupato proprio per accogliere chi è escluso dal mercato immobiliare, dove un contratto di affitto è un miraggio anche in presenza di contratto di lavoro e documenti regolari.
La storia di Moussa è la storia di tanti che si trovano ad affrontare una vita di espedienti e senza alternativa. E’ una storia che ci fa riflettere e che tocca temi complessi come il razzismo, l’accoglienza e l’immigrazione in generale, la retorica del “noi/loro”, i decreti sicurezza, i centri in Albania. Non ci sono viaggi sicuri per venire in Italia.
Moussa lavorava in nero perché non aveva il documento, era in attesa del rilascio, il suo appuntamento in Questura era stato più volte rimandato. Anche lui, come tanti, si trovava imbrigliato nelle attese infinite in questura, nell’assenza di prospettive, nell’impossibilità di ottenere risposte, nella perpetua precarietà lavorativa, nella discriminazione alloggiativa e nella mancata assistenza sanitaria, in costante lotta per costruire le radici per il proprio futuro. Anche lui sospeso nelle maglie dei ritardi, nel tentativo di vedersi riconoscere il diritto di esserci, nel perpetuo dovere di dimostrare requisiti e documentazione, in un circolo vizioso con l’imperativo al lavoro in un sistema produttivo che offre contratti lampo, in un Paese che criminalizza il migrante, quasi che alcune minoranze fossero più inclini a commettere reati.
In questo senso, anche la sua morte ricorda quella di altri, morti sempre indagate come eccesso di legittima difesa. Sembra esserci continuità nella narrativa dello straniero pericoloso e instabile, del nero minaccioso dal quale è lecito difendersi con tutta la forza disponibile.
Moussa sognava di tornare in Mali, sperava di rivedere la sua casa, la famiglia e la sua fidanzata.