Il fallimento della Cop 29 - di Simona Fabiani

I negoziati di Baku sul clima, che si sono svolti dal 17 al 22 novembre scorsi, si sono chiusi con un accordo fallimentare. Il testo cruciale di quest’anno, quello sul nuovo meccanismo finanziario, prevede che i Paesi ricchi assumano la guida per mobilitare almeno 300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035 a favore dell’azione per il clima per i Paesi in via di sviluppo, a fronte di necessità stimate nell’ordine di circa 5.000 miliardi di dollari annui.

Il testo non prevede alcuna garanzia di investimenti pubblici a fondo perduto (che non indebitino ulteriormente i Paesi del Sud del mondo) e nessun obbligo per i Paesi responsabili della crisi climatica. Le risorse potranno provenire da Banche di sviluppo e investitori privati. Il fondo “perdite e danni” è stato escluso dal finanziamento.

La presidenza azerbaigiana, nella gestione dei negoziati, ha fatto il gioco dei Paesi occidentali, che hanno negato le proprie responsabilità, pretendendo maggiori ambizioni sulla mitigazione da parte dei Paesi del Sud del mondo, senza fornire però l’adeguato supporto finanziario per passare rapidamente alle fonti rinnovabili, affrontare gli impatti devastanti della crisi climatica e coprire i costi delle perdite e dei danni.

Un atteggiamento deplorevole da parte dei Paesi più ricchi che - oltre a essere responsabili della crisi climatica - continuano tuttora ad espandere le proprie economie fossili, mentre avrebbero tutte le capacità finanziarie e tecnologiche per accelerare la transizione e per sostenere lo sviluppo sostenibile dei paesi più poveri e in via di sviluppo. Cina, Singapore e i Paesi del Golfo sono ancora considerati Paesi in via di sviluppo ma potranno, al pari degli altri Paesi più ricchi, contribuire volontariamente.

Un altro tema dei negoziati era quello relativo al programma di lavoro sulla giusta transizione, che si è concluso senza un accordo. Le consultazioni proseguiranno a giugno a Bonn per preparare una bozza di decisione da presentare alla Cop30 che si terrà l’anno prossimo in Brasile. Un segnale pessimo per il mondo del lavoro e per le comunità che devono affrontare gli effetti della transizione ecologica.

Nei testi finali su mitigazione e global stocktake (bilancio globale delle emissioni) non c’è alcun riferimento all’uscita dalle fonti fossili, nemmeno al più blando “transitioning away” stabilito nella Cop28 di Dubai, che pure prevedeva l’utilizzo del gas nella transizione, la Ccs (cattura e stoccaggio del carbonio), il nucleare, l’idrogeno non necessariamente verde, insomma di tutte le false soluzioni disponibili sul mercato. L’Arabia Saudita si è opposta fermamente a questo richiamo, in un gioco delle parti con i Paesi del nord globale che in teoria si ergono a paladini della transizione energetica e in pratica portano avanti le stesse vecchie politiche fossili.

Nella Cop29 di Baku hanno vinto la miopia e l’arroganza dei più forti, le lobbies del fossile, la finanza privata, le distrazioni basate sui meccanismi di mercato, il modello liberista, estrattivista, colonialista e di guerra che è alla base delle molte crisi planetarie. Il processo di questa Cop, la presidenza e l’atteggiamento dei Paesi del Nord globale hanno inferto un colpo esiziale alla fiducia e alla collaborazione.

Il fallimento di questa Cop ha segnato una ferita ai processi negoziali che non sarà facile superare e invertire con la prossima tappa in Brasile, proprio per questo non possiamo arrenderci né rassegnarci.

Serve adesso una reazione forte da parte di tutta la società civile, a partire dal movimento sindacale. È inaccettabile che non ci siano i soldi per ripagare il debito climatico dovuto al Sud del mondo, mentre si spendono migliaia di miliardi per alimentare guerre, massacri, crimini di guerra e contro l’umanità. Così come non è accettabile che, a fronte delle morti e della distruzione climatica, non ci sia ancora consapevolezza e volontà politica per abbandonare urgentemente le fonti fossili.

Mai come in questa Cop è stato evidente che lottare contro la crisi climatica significa lottare per cambiare radicalmente un modello di sviluppo insostenibile, per rimuovere le disuguaglianze, sia fra Nord e Sud globale sia all’interno degli stessi Paesi, per contrastare ogni forma di sfruttamento e colonialismo. Significa battersi affinché i lavoratori non siano abbandonati nella transizione, e garantire a tutti i popoli il diritto di vivere in pace nelle proprie terre.

La lotta per una giusta transizione, che intreccia giustizia climatica e sociale deve essere rafforzata a tutti i livelli dal posto di lavoro al globale, giorno per giorno.

Non dobbiamo rassegnarci alla vittoria degli interessi di pochi contro il bene comune, contro il benessere delle popolazioni e dell’ambiente in cui viviamo.

(4 dicembre 2024)

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