Pier Giorgio Ardeni, Le classi sociali in Italia oggi, Laterza, pagine 277, euro 20.
Se già Gyorgy Lukacs, nella prefazione autocritica all’edizione del 1967 di “Storia e coscienza di classe”, nel sottolineare i pregiudizi idealistici che avevano caratterizzato il suo capolavoro giovanile si era interrogato sulla “formulazione di una coscienza attribuita di diritto”, nella slavina ideologica che ha investito il movimento operaio organizzato è stata addirittura messa in dubbio, sulla scorta di un certo blairismo d’accatto, l’esistenza delle stesse classi sociali, in nome di una presunta predominanza della classe media.
Questo discorso ha fatto breccia ed è diventato un cardine delle politiche delle formazioni politiche che si sono susseguite alla mutazione genetica della sinistra post-1989: mentre un tempo la classe operaia veniva considerata il motore della trasformazione sociale, l’affermazione del neoliberismo ha coinciso con la fine di qualsiasi prospettiva di emancipazione delle classi subalterne. Cosicché dai partiti di classe velocemente si è passati ai partiti “pigliatutto” o interclassisti, in quanto, come acutamente segnala Pier Giorgio Ardeni nel recente “Le classi sociali in Italia oggi”, l’abbandono di ogni bussola di classe ha permesso alle formazioni reazionarie e populiste di cavalcare elettoralmente, dopo un trentennio di edonismo berlusconiano, la lotta contro le élite.
Quello di Ardeni è un saggio rilevante poiché, a partire dalla elementare constatazione che le classi sono tutt’altro che scomparse, riprende e approfondisce anche sul piano comparativo nell’apparato statistico la fondamentale e pionieristica indagine di Paolo Sylos Labini sulla struttura sociale italiana, pubblicata nel 1974 con il titolo “Saggio sulle classi sociali”.
Non che in questo cinquantennio non si sia registrato un fitto dibattito sulle riviste di sociologia, o che alcuni studiosi - da Franco Ferrarotti a Massimo Paci, da Pierre Bourdieu a Ralf Dahrendorf - non si siano cimentati con questa tematica, introducendo nelle loro analisi nuove acquisizioni concettuali a fronte della mutata composizione di classe. Infatti sono molteplici le classificazioni e le definizioni che hanno innovato il dibattito: proletariato dei settori produttivi periferici, classe operaia stabile e proletariato marginale, operaio sociale, “proletariato sui generis dei servizi”, la “non classe” precaria dei lavoratori non standard, ecc.
Pur prendendo atto della progressiva terziarizzazione dell’economia, i dati quantitativi evidenziano come la struttura sociale italiana sia composta schematicamente nei settori dell’industria, del terziario maturo e quello dei servizi, nonché dei pubblici dipendenti, da un proletariato e classe medio-bassa pari al 73,5%, mentre le componenti medio-alte e alte raggiungono il 26,5%. Se non ché, stante l’evaporazione del conflitto sociale e l’arretramento quarantennale di un mondo del lavoro, indebolito tra l’altro anche dall’individualizzazione dei rapporti di lavoro e da una crescente de-sindacalizzazione, si sono accentuati i differenziali di classe, poiché sono peggiorate le condizioni salariali e quelle normative dell’ingresso nel mercato del lavoro, per non parlare delle difficoltà di accesso all’istruzione e ai servizi pubblici.
Analogamente, per quanto concerne la distribuzione dei redditi, sulla base dei dati della Banca d’Italia riferiti al 2020 il reddito delle famiglie italiane è più basso di quasi un sesto in rapporto a quello del 2006; mentre la diseguaglianza secondo l’indice di Gini si è mantenuta costante, e soprattutto alta in relazione agli altri paesi europei.
Non è di conseguenza un mistero che l’appartenenza e la solidarietà di classe si siano da tempo “affievolite fino a scomparire”, come ha rilevato puntualmente il filosofo Mario Ricciardi su ‘il manifesto’ del 28 novembre scorso. Le lotte in quest’ottica sono spesso solo difensive, contro le delocalizzazioni e la ulteriore desertificazione produttiva del paese, oppure finalizzate alla rivendicazione dell’applicazione coerente dei contratti del trasporto merci e della logistica. Al punto che emerge la notevole differenza tra il contesto italiano e quello francese sul piano della coscienza di classe, e delle conseguenti mobilitazioni sulle questioni di carattere generale - ad esempio la vicenda delle pensioni - che non solo attiene alla diversa struttura di classe, ma ha a che vedere soprattutto con la presenza di una sinistra che, con la France Insoumise, non ha indugiato nella rottura programmatica con le devastanti ricette del social-liberismo.
Quindi la classe in sé non è scomparsa: caso mai sono mancanti le forze che dovrebbero rappresentare le classi subalterne, perché come hanno sostenuto da angolature diverse ma convergenti due intellettuali come Marco D’Eramo e Luciano Gallino “la lotta di classe l’hanno fatta e la continuano a fare sul piano ideologico e materiale le classi dominanti”, con tutti i rischi di involuzione che si profilano per la nostra democrazia.