Basterà evocare il fantasma dell’Accordo di Parigi per il clima, che nessuno dei grandi inquinatori sta davvero rispettando, per trasformare il trattato di liberalizzazione commerciale tra Unione europea e i Paesi del Mercosur in una palestra per il commercio ‘buono’ che da troppi anni come società civile predichiamo?
E’ un po’ questa la domanda che dobbiamo porci dopo aver letto per intero il testo aggiornato del trattato di liberalizzazione commerciale che potrebbe costruire un mercato unico tra l’Europa e i Paesi della principale area di libero scambio dell’America Latina, che tiene insieme Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, con l’associazione della Bolivia. Un mercato da potenziali settecento milioni di consumatori che, come ha vantato la rinnovata presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, potrebbe diventare “la più grande partnership commerciale e di investimento che il mondo abbia mai visto”.
Il trattato è in ballo da un quarto di secolo tra scetticismi alternati di Europa e Paesi terzi, perché a mettere insieme due sistemi non soltanto commerciali ma economici, ecologici, e di diritti così diseguali, c’è da fare gran danni. La Commissione europea, che ha cominciato il precedente mandato con il Green Deal, apre quello presente con un dispositivo che, rendendo più conveniente la domanda europea di carni, materie prime agricole come riso e soia, ma anche di minerali critici come il litio, contribuirebbe direttamente a deforestare altri 1,35 milioni di ettari dalla foresta amazzonica, il polmone del pianeta.
Il presunto guadagno sarebbe una crescita realistica di Pil dello 0,1% in Unione europea, distribuito in modo diseguale tra i diversi Paesi membri, e senza tenere conto della concorrenza diretta agli analoghi settori produttivi europei, che nessuno a Bruxelles si affatica a quantificare.
A livello di alleanze, la conservatrice von der Leyen vede di buon grado i risultati economici del premier argentino Javier Milei, presidente di turno del Mercosur, che ha tagliato del 35% la spesa pubblica, ha chiuso 13 ministeri, ha metà della sua popolazione sotto la soglia della povertà ma, per aver ripristinato l’apertura totale del suo Paese agli investimenti esteri, ha recuperato punti dalle agenzie di rating rispetto ai suoi più democratici predecessori.
Von der Leyen pensa, con questo trattato, di legare l’area a doppio filo alla sfera d’influenza europea, nonostante il nostro mercato sia già in deficit commerciale secco col Mercosur soprattutto nel settore agroalimentare, e Milei, da anarco-capitalista quale si dichiara, ha definito di recente la Cina “un partner commerciale favoloso” e ha sottolineato, in un’intervista all’Economist, che sebbene sia allineato con gli Stati Uniti e Israele, “il commercio avviene tra le persone e non tra i governi”. Quindi vale tutto.
Per convincere i critici interni, i governi di Francia, Austria, Belgio e in parte Italia che si sono schierati contro l’accordo per gli effetti che avrebbe su interi settori del primario e della prima manifattura europei, a partire dalla tartassatissima agricoltura, la Commissione ha inserito nel trattato alcuni annessi nuovi rispetto ai precedenti accordi. Uno di particolare interesse contiene una dichiarazione di impegno delle parti rispetto all’Accordo di Parigi per la riduzione delle emissioni climalteranti, e prevede “consultazioni urgenti”, se una parte ritiene, in base a fatti documentati, che l’altra abbia violato gli obblighi essenziali previsti dall’accordo di Parigi. Nessuna sanzione automatica si prevede, però, come nel caso di violazioni commerciali.
Il capitolo del trattato sullo sviluppo sostenibile sottolinea che l’accordo viene firmato “in mezzo a una combinazione senza precedenti di crisi e sfide”. Questo allegato dichiarativo specifica, tuttavia, che ciascun Paese che lo sottoscrive è responsabile di individuare delle proprie priorità di sviluppo sostenibile, nonostante esistano, a livello di Nazioni Unite, impegni comuni ben chiari e, in teoria, vincolanti, che potevano pure essere esplicitati e condivisi.
Per chi si aspettava particolari vantaggi immediati dalla riduzione delle tasse che i Paesi del Mercosur impongono sulle nostre esportazioni meccaniche e di auto, la brutta sorpresa è che quei dazi impiegheranno dai diciotto ai trent’anni per essere ridotti a zero. Argentina e Brasile, le due maggiori economie del blocco del Mercosur, avranno livelli tariffari più elevati rispetto a Paraguay e Uruguay. Sarà, quindi, molto più conveniente per il settore dell’automotive operante in Europa spostare nel Mercosur intere filiere, piuttosto che vendere loro auto o macchinari prodotti da noi. Il tutto con una prospettiva di crescita produttiva auspicabile per quei Paesi, ma nel bel mezzo di una drastica crisi dell’occupazione per il Vecchio Continente. Contro gli scossoni creati nel settore, a livello bilaterale, si prevedono dei meccanismi di intervento, normativo e tariffario, ma solo per i primi due-tre anni dall’entrata in vigore dell’accordo.
Un altro bottino cui la Commissione aspira è quello delle materie prime critiche: il Brasile non imporrà vincoli o tasse all’export di litio, nichel, rame, alluminio, semilavorati in acciaio, germanio o gallio, e se dovesse farlo il 50% delle esportazioni nazionali dovrebbe comunque raggiungere l’Unione europea e non ridursi mai oltre il 25%. Stesso vincolo per l’Argentina, cui sarà permesso, in cambio, di imporre dazi sull’export agricolo europeo verso il proprio mercato. Quello che continua a essere non pervenuto, però, è un meccanismo di monitoraggio costante, che chiediamo da troppi anni, dell’impatto ambientale e sociale di un dispositivo tanto invasivo, con relativi meccanismi correttivi vincolanti.
La Commissione europea propone in cambio, nel caso una parte dovesse introdurre nuove leggi percepite dalle aziende o dai governi del Mercosur come una limitazione delle relazioni commerciali, di chiedere meccanismi di riequilibrio. Questi, però, si applicherebbero anche a eventuali standard migliorativi ambientali, sociali, del lavoro che, come nel caso degli accordi precedenti, dovrebbero essere accompagnati da risarcimenti economici o negli scambi. Con l’effetto prevedibile, e già visto, che le parti resisteranno il più possibile prima di infliggere un danno materiale ai propri portatori d’interesse, pur se a svantaggio dei propri cittadini e dei loro diritti.
La Ces, Confederazione sindacale europea, ha chiesto a Commissione europea e Parlamento “di respingere l’accordo commerciale e di investimento nella sua forma attuale a causa delle preoccupazioni sulle deboli tutele del lavoro. Sebbene l’accordo – si sottolinea – possa offrire nuove opportunità di creazione di posti di lavoro e cooperazione tra Europa e Sud America, i sindacati continuano ad avere preoccupazioni”, per “la mancanza di trasparenza e legittimità democratica in queste negoziazioni che ha aumentato tali preoccupazioni”.
La Commissione europea, per convincere Stati e interlocutori dissenzienti, fa sapere che sta racimolando un non meglio definito “fondo di compensazione” che dovrebbe comprare il consenso degli incerti.
Come ribadito in un appello condiviso da oltre quattrocento organizzazioni, sindacati, comunità indigene e sociali di tutti i Paesi coinvolti “un altro commercio, basato su solidarietà, democrazia, cooperazione reciproca e uguaglianza, è possibile ma ci serve adesso” (https://europeantradejustice.org/eu-mercosur-nov2024/). l
(11 dicembre 2024)