Fin dall’annuncio dell’uscita del film di Andrea Segre su Berlinguer, mi sono chiesto cosa un autore che non aveva vissuto quegli anni volesse dire di quel dirigente politico e di quella stagione politica. Una curiosità accresciuta dall’ipotetica vicinanza alle vicende di allora e ai protagonisti della rilettura di oggi. Sono nato e cresciuto a Padova. Non sono mai stato del Pci, sempre “gruppettaro”, nel manifesto, nel Pdup e in Democrazia Proletaria. A Padova si è svolta la tragedia finale della vita di Berlinguer. E a Padova, alla fine degli anni ’90, ho conosciuto Andrea Segre, quando insieme ad Andrea Pennacchi animava un festival estivo di cinema e teatro, Itaca.
Uscito dalla visione del film il mio sentimento principale è stato di delusione. Sia chiaro, il film è bellissimo. La formazione documentaristica di Segre, l’enorme lavoro di ricerca che ha preceduto la sceneggiatura (con Marco Pettenello), l’empatia degli attori con i personaggi, l’interpretazione magistrale di Elio Germano nei panni di Berlinguer, la capacità di mixare fiction e documentazione d’archivio e, soprattutto, di inserire la vicenda personale nel contesto di una vicenda corale e collettiva, ne fanno un film di grande impatto, comunicatività, coerente lettura, non agiografico o didascalico.
Soprattutto mi è parsa una restituzione corretta della vicenda politica di quegli anni, così cruciali, sui quali c’è stata e c’è una enorme rimozione. Una scelta quindi coraggiosa.
Perché allora la delusione? Non voglio attribuire agli autori tesi che probabilmente non appartengono loro, ma la scelta di delimitare la biografia di Berlinguer al periodo del “compromesso storico” e dell’“unità nazionale” va stretta, mi sembra riduttiva. Allo stesso tempo, non aver considerato il “secondo” Berlinguer mi sembra una scelta consapevole.
Dunque, cosa cercavano o cosa hanno trovato, Segre e Pettenello, in quella figura e in quella vicenda politica? Da un lato, certamente, il senso di una politica alta, di una militanza che era impegno, coerenza, dedizione e capacità di sentirsi parte di un popolo, di vivere fino in fondo la responsabilità e il dovere di rappresentarlo. Ma dall’altro, il film coglie con precisione l’obiettivo politico di allora: portare il Pci al governo anche a costo di compromessi niente affatto “storici” e comunque non all’altezza dei rapporti di forza, né delle aspettative delle masse. E l’ambizione, “il sogno”, consisteva nel farlo nonostante un quadro internazionale in cui la collocazione dell’Italia era definita, e chi comandava i due blocchi contrapposti, Stati Uniti e Unione Sovietica, non accettava la politica del Pci e il suo ingresso al governo. Tanto che il film – e il periodo storico – si apre con il golpe in Cile e l’attentato “fraterno” a Berlinguer a Sofia, e si chiude con l’assassinio di Moro.
Insomma, voluto o no che sia, io ho letto così il filo conduttore del film: non c’era alternativa alla politica del Pci del compromesso storico e le forze internazionali contrapposte hanno avuto la meglio nel bloccare anche quel tentativo che, nelle intenzioni di Berlinguer, sarebbe dovuto essere il primo passo verso una “democrazia progressiva” e un socialismo democratico di carattere nazionale.
Forse, allora, la delusione sta nel fatto che noi che contestavamo quella linea eravamo fuori dal quadro? Non avevamo capito niente? Se la “nuova sinistra” - o “sinistra rivoluzionaria” - non aveva una compiuta strategia politica alternativa, è altrettanto vero che la spinta che veniva dalla società, dal movimento operaio, dagli studenti e dai giovani - ben al di là del peso dei “gruppi” - mal si riconosceva nelle maglie dell’accordo con la Democrazia Cristiana, partito iper-atlantista, clientelare, corrotto, implicato nelle trame nere e nella strategia della tensione.
Anche la questione della “fermezza”, l’inossidabile adesione alla ragion di Stato contro ogni ipotesi trattativista, l’adesione alle “leggi di polizia”, la lettura prevalente dei movimenti solo come eversivi e fiancheggiatori delle Br, il rifiuto del garantismo, fanno parte di quelle scelte politiche che hanno contribuito a mantenere antagonistiche le posizioni tra il Pci e la “nuova sinistra”, ma ancor di più con settori consistenti del proletariato giovanile, rifluiti poi nella violenza o nell’isolamento individualistico.
Il film e la realtà di quel periodo rimandano a domande anche per l’oggi: il Pd è alla fine l’approdo coerente della politica dell’incontro tra le masse comuniste e cattoliche? Il suo governismo affonda le radici nel “sogno” di portare il Pci al governo con i necessari compromessi? L’adesione, dopo Berlinguer, dei principali partiti della sinistra alla globalizzazione neoliberista ha qualcosa a che fare con l’allora forzosa (?) accettazione del quadro internazionale dato?
Va certamente ringraziato Segre per il bel film, e per averci dato un’occasione di dibattito.