La storia di Licia: in morte della vedova Pinelli - di Alessio Lega

La mattina dell’11 novembre è morta Licia Rognini, vedova di Pino Pinelli: aveva 96 anni, fino all’ultimo respiro ha serbato integra la sua lucidità, il suo coraggio, la sua ironia. All’ambulanza che voleva portarla in ospedale, per una corsa che sapeva benissimo essere inutile, ha detto “non se ne parla neppure”.

La sua memoria civile l’aveva consegnata a due libri, uno leggendario che non può mancare in alcuna biblioteca “Una storia quasi soltanto mia”, il libro intervista di Piero Scaramucci uscito nel 1982 che andrebbe letto nelle scuole per insegnare al contempo la memoria e l’orgoglio. L’altro si chiama “Dopo”, scritto da sola, con frasi brevi, lapidarie, precise, per raccontare, appunto, come sopravvive chi è sottoposto alla tortura del lutto e alla morte della fiducia nella giustizia, ma continua a cercarla.

Riavvolgiamo il nastro della storia, perché questi avvenimenti li conosciamo, ma sono talmente incredibili che ogni volta tocca ripeterseli. Alle 16,37 di venerdì 12 dicembre 1969, nel pieno centro di Milano, scoppiava una bomba ad alto potenziale nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana. Faceva 17 vittime (13 sul colpo) più 87 feriti. Una seconda bomba, inesplosa, era collocata sempre a Milano, altre tre esplosero a Roma, provocando 16 feriti.

I cittadini, ancora memori dei bombardamenti di guerra, si ritrovarono in un incubo: finiva così l’euforia del boom economico e il festoso incontro di operai e studenti che nelle manifestazioni del ’68 e ’69 chiedevano nuovi diritti sul lavoro, per lo studio, nella vita. Incredibilmente le indagini si rivolsero unicamente verso la sinistra rivoluzionaria e verso gli anarchici. Uno di essi, Giuseppe (Pino) Pinelli, ex-partigiano, ferroviere da tutti stimato, padre di due bambine, la sera stessa dell’attentato venne invitato a raggiungere la Questura, dove fu imprigionato da un estenuante fermo, che il commissario Calabresi prolungò illegalmente ben oltre le 48 ore previste.

Nella notte del 15 dicembre a casa Pinelli si presentarono due giornalisti, dicendo che Pino era caduto dalla finestra della Questura. Nei giorni e nelle ore precedenti Licia si era tenuta in contatto (quanto possibile) col marito: non era una novità che lui, organizzando manifestazioni, dovesse avere a che fare coi poliziotti. Su questo fu poi costruito il mito che la vittima ed il commissario fossero addirittura amici, il ché se non fosse tragico sarebbe ridicolo.

L’“amico” commissario non trovò il tempo di telefonare a Licia la “disgrazia”, anzi interpellato le disse che erano “troppo occupati”. Questore e poliziotti presenti nella stanza si affannarono a dire che Pinelli - inchiodato dalle accuse - si era suicidato, il che risulterebbe difficilissimo in un ambiente così angusto e presidiato. Ma Pino - si seppe quasi subito - era del tutto estraneo ai fatti (come gli anarchici e la sinistra), amava la vita, i compagni ed era gioviale e ostile al suicidio.

Da quel giorno Licia dedicò tutta la sua forza e il suo tempo a riscattare il nome, la dignità e la passione di quel marito che aveva ammirato e preso in giro, col quale divideva i giorni ed i pochi soldi, i turni e le fatiche della vita. Per fare questo - e lo sapeva - doveva scendere in guerra contro lo Stato, la magistratura, la polizia, i benpensanti, i fascisti, gli stupidi e gli ignoranti. Certo, aveva anche degli alleati che le si avvicinarono, le restarono fedeli…ma le battaglie sono lunghe e inevitabilmente ci si ritrova soli.

Licia aveva due figlie, e in loro si può abbracciare il suo capolavoro: per anni e anni, ben oltre l’adolescenza, fece in modo che crescessero libere dai condizionamenti che quell’enorme ingiustizia aveva rovesciato sul loro capo. Solo in età adulta - per strade diverse - hanno deciso di diventare entrambe testimoni attive della storia che hanno vissuto.

Lunga e intricatissima la vicenda processuale di Piazza Fontana. Dopo aver tentato di stritolare l’innocente Pietro Valpreda non è mai giunta a nulla: quei morti non hanno ancora trovato giustizia. La battaglia di Licia si è infranta sull’omicidio del commissario Calabresi, un omicidio troppo stupido o troppo furbo (dipende da chi lo ha compiuto, non credo alla sentenza che lo attribuisce ai dirigenti di Lotta Continua). Pinelli è invece inchiodato ad una sentenza salomonicamente ipocrita: non si è suicidato e non è stato ammazzato... Nel 2009 l’allora presidente Napolitano assunse ufficialmente Pinelli fra le vittime di Piazza Fontana. Per me - nel rispetto e nell’amore per quelle vittime - resta ben diverso essere uccisi da una bomba fascista o nei locali della Questura.

Licia dunque è morta come ha vissuto, con la schiena dritta, con lo sguardo pulito, non dicendo mai una parola più del necessario, ma dicendo tutte quelle parole - anche dolorosissime - che la coscienza le imponeva. Tutti i cittadini, i lavoratori di questo paese le devono essere grati e prendere nelle mani quella ricerca della verità, assieme a Claudia e Silvia Pinelli.

Per loro facciamo nostre le parole con cui Licia concluse il suo secondo libro: “Alla fine della vita ciò che conta è aver amato”.

 

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