A dieci anni dalla Resistenza di Kobanê (novembre 2014), la città simbolo della resistenza a Daesh è ancora sotto tiro. Stavolta direttamente da parte di Ankara.
Su proposta di circa 130 scrittori, accademici e giornalisti (tra cui Noam Chomsky e Adolfo Pérez Esquivel), la Commissione Civica dell’Unione europea in Turchia (Eutcc) e la Iniziativa della Campagna per la Pace dichiaravano il primo novembre 2014 “Giornata mondiale di Kobanê”. Con un appello alla “mobilitazione globale per Kobanê e per l'umanità”.
Si deve amaramente constatare che di quel primo entusiasmo per la resistenza curda di fronte a Daesh è rimasto ben poco. Ma andiamo con ordine. Risalivano al 15 marzo 2011 le prime proteste antigovernative a Daraa nel sud della Siria. Man mano che si estendevano, si intensificava anche la repressione. Contemporaneamente varie formazioni jihadiste (Ahrar al-Sham, il Fronte al-Nusra...) e altri gruppi sostenuti da Ankara iniziarono ad attaccare le città del Rojava (il Kurdistan occidentale, entro i confini della Siria), approfittando della crisi. La prima a essere colpita fu Serêkaniyê, ma l’assalto dovette arenarsi di fronte alla coraggiosa resistenza dei giovani curdi.
Mentre combattevano contro le milizie islamo-fasciste e filo-turche, gli abitanti del Rojava non rinunciavano a portare avanti l’autogoverno e l’autodifesa in base ai principi del Confederalismo democratico (decisioni prese collettivamente da comitati e assemblee di quartiere, co-presidenze...).
Con il 23 febbraio 2012 si avvia concretamente la formazione dell’Assemblea Popolare a Kobanê, mentre si incrementa l’attività sia della Casa della Donne (Mala Jin) che della formazione di una istituzione in lingua curda. Il 19 luglio 2012 gli abitanti di Kobanê, affrancandosi da Damasco, dichiarano avviata la “Rivoluzione del 19 luglio”. Iniziative che presto contagiano anche Afrín e Cizre.
Due anni dopo, nel giugno 2014, in soli sei giorni Daesh conquistava Mosul, una delle maggiori città dell’Iraq. Causando un milione di sfollati e distruggendo, en passant, la moschea del profeta Giona (XIII secolo), quella di al-Nuri e le antiche mura di Ninive, oltre ad un’immensa quantità di preziosi e rari manoscritti, statue e reperti di origine assira conservati nelle biblioteche e nei musei della città.
Mosul sarà liberata soltanto tre anni dopo (combattendo dall’ottobre 2016 al luglio 2017) dall’azione convergente dell’esercito iracheno e dei peshmerga curdi, in gran parte provenienti dai ranghi di Pdk (Partîya Dêmokrata Kurdistanê) e Upk (Yeketî Niştîmanî Kurdistan), coadiuvati dall’aviazione della coalizione internazionale.
Sempre nel 2014, in agosto, Daesh va all’assalto di Sinjar (in curdo Şingal o Şengal), una cittadina vicina al confine con la Siria dove dal 2014 è in corso una forma di autogoverno denominata ‘Autonomia democratica di Shengal’. Qui verrà consumato uno dei peggiori genocidi dell’epoca recente, a danno della minoranza dei curdi yazidi (o ezidi). La popolazione viene letteralmente decimata. Mentre gli uomini e le persone anziane vengono trucidati a migliaia, donne e bambine sono sequestrate e ridotte in schiavitù, e arruolati a forza nelle milizie jihadiste i bambini e i ragazzi.
Da sottolineare che nel corso della storia questa minoranza perseguitata è stata sottoposta a ben 74 ‘ferman’. Ossia l’editto con cui si prescriveva il massacro (autentici pogrom) della popolazione accampando motivi religiosi o politici. L’ultimo in ordine di tempo è stato, appunto quello operato da Daesh nel 2014.
Mentre Raqqa nella Siria orientale assumeva (dal gennaio 2014 al 17 ottobre 2017) il poco encomiabile ruolo di quartier generale e capitale del Califfato (proclamato ufficialmente il 29 giugno 2014), e al mercato si vendevano a centinaia le donne e ragazze rapite, nel settembre 2014 veniva attaccato anche il villaggio di Serzûrî. Situato in una posizione strategica a una quarantina di chilometri da Kobanê, era obiettivo finale (l’intero cantone, non solo la cittadina) delle milizie jihadiste riunite nello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (al-Dawla al-Islāmiyya fī l-ʿIrāq wa l-Shām, poi semplicemente al-Dawla al-Islāmiyya). Dove, va detto, il termine ‘Shām’ stava a indicare il Levante, ossia la “Grande Siria” che comprende l’intera area oggetto delle vaste aspirazioni jihadiste (in pratica gli attuali territori del sud della Turchia, la Siria, il Libano, la Giordania, Israele e la Palestina).
Pare quasi una leggenda, ma in realtà a fermare le prime incursioni dell’Isis fu la strenua resistenza di una dozzina (12, numero simbolico?) di giovani combattenti ‘apoisti’ (seguaci del pensiero di Ocalan).
Kobanê Calling!
La resistenza popolare, guidata da Ypj (Yekîneyên Parastina Jine, Unità di Protezione delle Donne) e Ypg (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di protezione Popolare) con il sostegno di peshmerga dal Bashur (Kurdistan entro i confini iracheni), di militanti del Pkk (Partîya Karkerén Kurdîstan, Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e di combattenti arabi alleati, si protrasse per 134 giorni nonostante la disparità dei mezzi a disposizione, per quanto supportata dai bombardamenti della coalizione internazionale a guida statunitense. Allargandosi via via in tutte le zone a prevalenza curda, e diventando il vero punto di svolta per la sconfitta di Daesh (diciamolo: la Stalingrado curda). Si calcola che negli ultimi mesi del 2014 Daesh controllasse oltre 350 villaggi e città curde nei dintorni di Kobanê, con la conseguente fuga di centinaia di migliaia di abitanti (presumibilmente da 300mila a mezzo milione).
Nel corso delle battaglie, soprattutto dal Bakur (il Kurdistan del Nord, posto entro i confini della Turchia) migliaia di giovani (sia curdi che turchi di sinistra) si mossero per raggiungere Kobanê.
Da parte sua il governo turco (preoccupato più che per la sorte dei suoi ascari islamisti, per il possibile “contagio” delle regioni autonome curde) cercò di impedirlo, anche schierando i carri armati. Di fatto ponendosi a sostegno di Daesh. Come quando in quel di Antep (ottobre 2014) esprimendo non rammarico ma un malcelato compiacimento Erdogan annunciava che “Kobanê è sul punto di cadere”. Sollevando l’ira legittima della popolazione curda. Oltre cinquanta civili persero la vita in quelle che passarono alla storia come le “Proteste del 6-8 ottobre”.
Si arrivava infine al glorioso 26 gennaio 2015. Quando Ypj e Ypg, dopo aver lasciato sul terreno migliaia dei loro combattenti, annunciarono di aver ottenuto la prima vera, sostanziale vittoria su Daesh. Segnando l’inizio della fine per l’orda fascio-islamica. Da Kobanê la riscossa curda proseguì poi a Manbij, Raqqa, Tabqa e Deir ez-Zor. Fino all’ultimo caposaldo jihadista di Baghouz (Baxoz).
Ci fu un risvolto prevedibile, per quanto disgustoso. Nell’incapacità di poter digerire la vittoria curda, il governo turco prese la strada delle ritorsioni, arrestando centinaia di persone che in qualche modo avevano espresso solidarietà alla resistenza (con l’accusa di aver preso parte alla “Cospirazione di Kobanê”). In molti denunciarono di essere stati sottoposti a maltrattamenti e torture. Inoltre la cittadina venne ripetutamente bombardata dall’esercito turco causando numerose vittime civili (donne e bambini compresi). Appunto una sporca ritorsione.
Siamo all'oggi, al recente ulteriore incremento degli attacchi turchi. Il 23 ottobre scorso Ankara è tornata a colpire per quattro giorni di seguito diverse aree con forte presenza di civili nel nord e nell’est della Siria. Distruggendo infrastrutture, ospedali, scuole, attività economiche, e causando numerose vittime.
Appello di Tevgera Civaka Demoqratik
E’ di questi giorni un appello inoltrato da Tev-Dem da (Tevgera Civaka Demoqratik, Movimento della società democratica, il progetto sociale sperimentato nel Rojava) per un sostegno internazionale alla popolazione del Rojava sotto l’attacco dell’esercito di Ankara. Forse intenzionato, a dieci anni dalla Resistenza vittoriosa di Kobanê, a completare l’opera lasciata in sospeso dagli islamisti.
“A Kobanê – si legge nel comunicato di Tev-Dem - è stata condotta una resistenza senza precedenti. La città è diventata un simbolo mondiale di resistenza per i valori comuni dell’umanità”. E prosegue: “Dieci anni dopo, Kobanê è nuovamente sotto attacco da parte dello Stato turco e dei suoi proxi jihadisti”. Nella generale indifferenza dell’opinione pubblica, vien da dire. Per questo “ci appelliamo ad un maggior sostegno alle conquiste dei popoli del nord e dell’est della Siria. Il Rojava ha resistito per l’intera umanità, l’umanità deve ora impegnarsi per il Rojava”.
Esprimere perlomeno gratitudine sarebbe il minimo.
Quanto alla popolazione del Rojava, ha voluto inviare un messaggio inequivocabile a Erdogan & c: “Un popolo che ha provato la libertà una volta, non sarà sconfitto facilmente”.
(5 novembre 2024)