Tra il 16 e il 26 ottobre scorsi da Milano a Bari hanno girato l’Italia per la campagna “Obiezione alla Guerra”. Sofia Orr e Daniel Mizrahi (israeliani, hanno rifiutato armi e divisa, sono obiettori di coscienza e per questo reduci dal carcere), Tarteel Yasser Al Junaidi e Aisha Amer (palestinesi, sono attiviste nonviolente e difendono i diritti umani, contro l’occupazione) sono quattro testimoni di pace. Invitati in Italia dal Movimento Nonviolento e sostenuti dalla Rete Italiana Pace e Disarmo, questi quattro giovanissimi, tre ragazze e un ragazzo, hanno raccontato in sale sempre piene e attente come sia possibile unire ciò che la guerra invece vorrebbe irreparabilmente diviso.
Componenti di Mesarvot, una rete di giovani attivisti israeliani che rifiutano di prestare il servizio militare obbligatorio, e Community Peacemaker Teams - Palestina (Cpt), che sostiene la resistenza di base nonviolenta guidata dai palestinesi contro l’occupazione israeliana, questo ponte tra i due popoli è sembrato a molti una luce di speranza nel buio che è calato in Medio Oriente.
I quattro pacifisti sono stati inoltre auditi al Comitato per i diritti umani del mondo della Camera dei Deputati, ed hanno parlato senza nascondere parole come “il sistema di apartheid in cui sono segregati i palestinesi” o “il genocidio in corso a Gaza”. Hanno insistito molto sul fatto che “Israele non è una democrazia”, ricordando i diversi standard di diritti che hanno gli ebrei israeliani, gli arabi israeliani e i palestinesi dei territori occupati (questi ultimi praticamente nessun diritto).
Lo scopo del tour è stato quello di sostenere concretamente e far conoscere i movimenti nonviolenti, gli obiettori di coscienza, i pacifisti che lavorano per la convivenza dei due popoli.
La richiesta di pace che si alza dalle popolazioni civili - è stato ripetuto - è l’unica alternativa alla violenza cieca dell’esercito e dei gruppi armati che a Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Israele stanno seminando odio e vendetta. La spirale che ci sta portando al terzo conflitto mondiale può essere spezzata: l’obiezione alla guerra è il primo passo. La richiesta pressante della campagna, che in Italia aveva già portato una delegazione di obiettori ucraini, russi e bielorussi, è sempre la stessa: “Chiediamo alle istituzioni, all’Unione europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione”.
La più giovane dei quattro Sofia, ha appena 19 anni e oltre 85 giorni di carcere alle spalle per essersi rifiutata di partire per Gaza. “Ho obiettato - spiega - perché non voglio essere parte attiva o solo complice dell’oppressione, dell’occupazione o del genocidio. Il mio corpo sarebbe stato gettato in un ciclo di violenza che sta sconvolgendo il Paese, dal fiume al mare. E l’ho voluto fare pubblicamente, con Mesarvot, per dare il risalto più ampio possibile alla mia azione. Per dare voce alla sofferenza dei palestinesi”. Sofia parla di una vera e propria censura operata in Israele verso “i valori di giustizia e pace, a causa di una educazione militarista e razzista”. A chi domanda se mai questa situazione potrà cambiare, risponde che “molto dipende dalla pressione internazionale, e se e quando si smetterà di sostenere il governo israeliano armandolo incondizionatamente”.
Se Sofia è figlia di pacifisti storici, Daniel Mizrahi, 26 anni di età e 50 giorni di carcere scontati per aver rifiutato la divisa, è figlio invece di coloni legati alla coalizione di destra di Netanyahu. La sua è stata una scelta decisa, spontanea, ma che ha comportato una rottura con i suoi genitori. “Israele governa su milioni di palestinesi che però non hanno diritto a votare. Gli arabi di cittadinanza israeliana, che il diritto al voto lo hanno, vengono arrestati mezz’ora dopo aver postato sui social commenti di empatia per i bambini vittime di guerra o perché chiedono la pace. Le manifestazioni non violente, e ce ne sono state diverse ad Haifa e Gerusalemme, sono pesantemente represse e ci sono arresti arbitrari. La cosa più terribile sono le uccisioni a Gaza e in Cisgiordania. Non c’entra essere arabi o ebrei, è una questione di umanità e di giustizia”.
Tartel Al Junnadi, palestinese, è la più “anziana” del gruppo (29 anni). Viene da Hebron in Cisgiordania. Parla dell’intensità della violenza operata dai coloni con la connivenza dell’esercito israeliano. “Sono cresciuta nella convinzione che come palestinese la mia voce non sarebbe mai stata ascoltata. Aderendo al Cpt ogni giorno aiutiamo le persone più fragili nell’approccio con i militari israeliani. Per interrompere il ciclo della violenza bisogna intaccarne le radici, che sono i soprusi e la negazione dell’altro. Chiediamo la pace che può essere raggiunta solo attraverso la giustizia”.
Cpt e Mesarvot, una parola ebraica che significa “noi rifiutiamo”, lavorano insieme, e ogni giorno con la loro azione tengono accesa la luce di una convivenza possibile e necessaria.