Rai, febbre da cavallo - di Gianmarco Posa

La Rai è sempre stata al centro delle attenzioni della politica e della società. La riforma della governance voluta dal governo Renzi nel 2015 ha spostato gli equilibri dalla Rai del Parlamento (e dei partiti) alla Rai del governo, aumentando le pressioni della politica sull’azienda.

In un paese in cui le diseguaglianze aumentano e i governi politici, soprattutto quello in carica, si distinguono nel galleggiare, dividendo cittadine e cittadini alla ricerca continua di un nemico della nazione, il servizio pubblico viene indirizzato ad asservire le scelte dell’esecutivo, e qualsiasi tentativo di riflessione critica viene, nella migliore dalle ipotesi, stigmatizzato.

Il taglio del canone da 90 a 70 euro, la compensazione con risorse provenienti dalla fiscalità generale, la poca chiarezza sulle risorse economiche per il 2025, con nuovi tagli previsti nella legge di bilancio, mettono a rischio la tenuta economica dell’azienda.

Un piano industriale che fatica a vedere la luce, un piano immobiliare che la Corte dei Conti, nella sua ultima delibera, definisce “dagli ambiziosi obiettivi”, completano un quadro politico-industriale problematico.

L’ormai consolidato mondo delle web tv, dell' on demand e di altri formati presenti sulla rete, oltre ai mancati rinnovi di alcuni contratti artistici, certamente onerosi ma la cui contropartita in termini di ascolti portava importanti introiti pubblicitari, non sono compensati dai nuovi prodotti televisivi, i cui ascolti sono sempre più di frequente pessimi. Tutto ciò pone ulteriori elementi di riflessione e discussione non più rinviabili sul modello futuro della cosiddetta Tv di Stato.

Le testate giornalistiche regionali, elemento qualificante del servizio pubblico, non possono essere l’unico obiettivo sui territori. I Centri di Produzione di Milano, Napoli e Torino e le Sedi Regionali possono diventare delle eccellenze nella valorizzazione non solo degli eventi di prossimità ma, ad esempio, diventare un belvedere verso i paesi del Mediterraneo e dell’Europa, centri dove sperimentare nuovi modelli comunicativi, tecnologie e tanto altro. Viceversa la Rai, al netto del presidio della Tgr e di buoni propositi solo a parole, considera i territori come un qualcosa di fastidioso da dover gestire forzatamente.

Nelle relazioni sindacali le cose non vanno meglio. Nel luglio scorso il 52% dei lavoratori ha bocciato l’ipotesi di accordo sul rinnovo del Ccnl. Le motivazioni sono molteplici ma, per comprendere appieno le ragioni, bisogna ritornare sul peccato originale. Il modello aziendale nelle relazioni sindacali, basato sul tenere sempre di più ai margini le Rsu privilegiando il solo rapporto con le segreterie nazionali dei sindacati di categoria, sta mostrando tutti i suoi limiti ed oggi è in crisi.

Dopo la bocciatura dell’ipotesi di accordo sul rinnovo del Ccnl, ci si sarebbe aspettata una presa d’atto forte, si sarebbe dovuto immediatamente attivare il rinnovo delle Rsu scadute da tempo, e di conseguenza il rinnovo di tutte le cariche di rappresentanza negli organismi sindacali. Invece si è deciso di sedersi nuovamente al tavolo per un “secondo tentativo”.

Puntare sul prendere un voto in più, come se fosse l’elezione del sindaco o del presidente di Regione, nei fatti sancisce la spaccatura a metà tra lavoratrici e lavoratori, e nel breve-medio periodo rischierà di portare lavoratrici e lavoratori ad un allontanamento dal sindacato.

C’è da fare un gigantesco lavoro nel ricostruire i rapporti tra lavoratori e sindacato, c’è da rimettere al centro l’azione politica delle Rsu, discussione che è sempre al centro nei nostri congressi.

 

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