La pratica contrattuale non può negare la lotta di classe come fondamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Il modello di relazioni sindacali, nato con gli accordi tripartito governo, Confindustria e sindacati confederali del 1993, è in piena crisi. Da oltre un decennio gli aumenti delle retribuzioni nominali non riescono neppure a mantenere l’invarianza del loro valore reale. Il potere d’acquisto delle retribuzioni, ci spiegano e ricordano tutti, è diminuito del 4,5% nel solo 2022, ma di oltre il 17% dal 1993.
La gente se ne rende conto bene. Fare la spesa, pagare le bollette, gli affitti e i mutui e le assicurazioni, acquistare e mantenere un’automobile, mandare i figli a scuola: ogni giorno chi lavora o è in pensione si accorge di quanto pesi quel 17% …
L’incremento delle retribuzioni (nominali), vantato dal governo Meloni come prova evidente della “buona” politica, c’è stato perché i sindacati di categoria sono riusciti a chiudere tra il 2023 e il 2024 - grazie alla mobilitazione dei lavoratori e alla determinazione delle categorie - numerosi contratti con esiti salariali dignitosi, anche se al di sotto dell’inflazione reale del periodo di riferimento (qualche contratto era in “lista di attesa” da otto anni!).
L’accordo sulle relazioni industriali e la politica dei redditi del 1993 ha carattere neo-corporativo: riconosce il ruolo dei sindacati come soggetto normativo e contrattuale, e avrebbe nel governo – qualunque esso fosse, qualunque maggioranza parlamentare lo avesse espresso – il garante.
Un quadro legislativo consolidato faceva da cornice e garanzia dei diritti dei lavoratori e delle loro organizzazioni di rappresentanza, a partire dallo Statuto dei lavoratori e dalle leggi che tutelavano il ruolo dei sindacati nelle relazioni industriali e nella loro regolazione. La Costituzione repubblicana nell’articolo 39 riconosce dignità costituzionale ai sindacati dei lavoratori, ed era stato rafforzato nel dopoguerra con un complesso legislativo di sostegno frutto delle lotte dei lavoratori, di cui lo Statuto del 1970 aveva rappresentano l’acme.
Dire che gli accordi del ‘92-‘93 sono carta straccia sarebbe una esagerazione (sono ancora formalmente in vigore e i rinnovi contrattuali li utilizzano ancora come quadro, anche con i correttivi apportati negli anni successivi tra i quali il famigerato Ipca-Nei, Indice dei prezzi al consumo armonizzato, al netto dei beni energetici importati, ribadito peraltro nel “patto per la fabbrica” sottoscritto nel 2018 tra Confindustria e Cgil Cisl Uil), ma non garantiscono il rinnovo dei Ccnl nei tempi previsti, e nessun contratto è mai riuscito, salvo smentite, ad ottenere un incremento del valore reale delle retribuzioni per nessuna categoria, neppure quando si è riusciti a siglare accordi con l’Ipca, “senza Nei”, o a chiudere sull’inflazione reale del periodo di riferimento (nel quadriennio o nel triennio).
Nel corso degli anni il Parlamento, su iniziativa dei governi che si sono succeduti, compresi quelli di centro-“sinistra”, ha provveduto a legiferare in direzione opposta e contraria a quella di tutelare e favorire la rappresentanza sindacale. Il quadro normativo, con la sola eccezione del decreto Bassanini a fine 1997 - che stabiliva norme cogenti per l’elezione delle Rsu nel Pubblico impiego, anticipando una legge sulla rappresentanza che non ha mai visto la luce - è andato via via svalorizzando il ruolo del sindacato come agente contrattuale e di rappresentanza, vedi l'articolo 8 della legge Sacconi del 2011, per arrivare alla legge Renzi 183 del 2014.
La crisi dei rapporti unitari tra Cgil Cisl e Uil, e la determinazione da parte padronale di impedire qualsivoglia aumento reale dei salari, hanno trasformato il modello unico contrattuale in un’araba fenice, e la politica dei redditi in una chimera.
Il quadro è stato ulteriormente complicato dalla crisi dell’egemonia di Confindustria sull’insieme del sistema delle imprese, a partire dal suo indebolimento nei rapporti con le aziende multinazionali, ma anche dello spazio politico acquisito da altre organizzazioni di rappresentanza non industriali come Confcooperative, Coldiretti e Confcommercio.
Si è aperta una discussione - sottotraccia per ora, confinata prevalentemente al “dibattito” extra-statutario tra segretari generali e negli apparati nazionali - sul modello contrattuale, ma che comincia ad emergere nelle deliberazioni confederali e di categoria. Manca del tutto il coinvolgimento dell’intero quadro attivo della Cgil e tanto meno della massa dei lavoratori, mentre gli accordi del 1992-93 furono oggetto di un referendum che li avallarono, con ben oltre il milione di votanti, al termine di una campagna assembleare che coinvolse milioni di lavoratori.
Ci sono le condizioni per un nuovo patto tra governo e parti sociali che le riconosca e affidi loro la definizione di regole universali sulla contrattazione? Il governo potrebbe esserne di nuovo il garante, mentre fino ad oggi tutti i governi, a partire dal primo governo Berlusconi, hanno sempre più favorito il rapporto unilaterale tra datore di lavoro e dipendente? Possono i sindacati confederali continuare a riconoscere a Confindustria un ruolo egemone nel fronte padronale davanti a una frammentazione della rappresentanza datoriale, mentre anche il governo appare più attento a garantirsi il consenso dei singoli gruppi multinazionali, del mondo finanziario, e a conquistare il sostegno delle organizzazioni dei settori primario e secondario?
La tesi che l’Italia possa mantenere il suo livello di ricchezza e i suoi standard, passando da una economia trainata dalla produzione industriale (sia materiale che immateriale) ad una basata sul settore primario e sul turismo, è priva di fondamento nella dottrina economica. Dal punto di vista economico e sociale, l’industria resta e deve restare il cuore dell’economia italiana, pena l’impoverimento generalizzato del paese. Chi usasse quest’argomento per teorizzare il pluralismo dei modelli contrattuali, contrapposto ad un unico modello valido per tutte e tutti i lavoratori, commetterebbe un errore.
Invece di difendere un modello contrattuale universale astratto, o teorizzare tanti “modelli” a seconda delle controparti, è più urgente dare forza alla linea sindacale confederale sulla contrattazione, condivisa tra confederazione e categorie, a partire dal salario minimo indicizzato per legge, la centralità dei Ccnl come autorità normativa e salariale, la loro riduzione nel numero, e l’estensione della contrattazione di secondo livello. La Confederazione, con il sostegno di tutte le categorie, dovrebbe aprire una vertenza generale sul salario e la contrattazione, che fornisca ad ogni categoria la forza per affrontare il rinnovo dei contratti collettivi di lavoro, una sorta di linee guida, affiancate dal sostegno politico e dalla individuazione di obiettivi comuni a partire dal salario.
I rapporti tra categorie sono come sempre questione di equilibri e pesi e contrappesi interni a quelle organizzazioni confederali (come la Cgil) che rifuggono – per scelta! – dal corporativismo categoriale e non solo da quello aziendale e professionale. Occorre rivitalizzare il rapporto organizzativo tra dipartimenti confederali e categorie, per consentire alle singole categorie - cui spetta la titolarità contrattuale - di governare la frantumazione delle organizzazioni di rappresentanza padronale, che produce a volte moltiplicazione dei tavoli contrattuali, e richieste di inserimento di settori già presenti in altri contratti, e di figure professionali identiche con salari diversi a parità di qualifica in Ccnl diversi. Un problema che ha già creato frizioni tra i sindacati del terziario (commerciale, finanziario, conoscenza), ma anche tra quelli del terziario e dell’industria.
La pratica contrattuale non può negare la lotta di classe come fondamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Se non hai a cuore la lotta di classe, se non ne riconosci la natura inconciliabile, non puoi governare le contraddizioni determinate tra i lavoratori da rapporti di forza diversi, da margini di profitto e quote di produttività diverse tra settori di lavoro, e non puoi più ricondurre a sintesi gli interessi dei lavoratori facendo dell’unità di classe - anche sindacale - il fine dell’attività sindacale, mentre esercitiamo il compito primario di contrattare.