La riorganizzazione del potere economico - di Andrea Fedeli

La partecipazione dei lavoratori è data dall’articolo 3 della Costituzione: il contrario del recupero delle risorse salariali e pensionistiche per fini privati.

Le recenti cronache finanziarie forniscono una chiave di lettura interessante delle forme di riorganizzazione del potere economico e delle loro ricadute sociali e politiche. Il Sole 24 ore del 16 ottobre scorso riporta che nel 2024 le pratiche di buy back, con cui le imprese acquistano sul mercato azioni proprie, hanno mosso, solo a Wall Street, 988 miliardi di dollari, il 23 per cento in più dell’anno precedente, mentre si prevede un investimento in tal senso di mille miliardi per il 2025.

Il mercato dei capitali è dunque tutt’altro che un sistema aperto alla partecipazione diffusa degli investitori. I titoli di partecipazione, le azioni, si concentrano in poche mani, mentre tali concentrazioni sono finanziate dalla massiccia diffusione di strumenti di credito più o meno solidi, più o meno deteriorabili. Il Sole 24 ore del 25 ottobre scorso precisa che la ritrosia delle aziende italiane a quotare ampli pacchetti azionari in borsa deriva dalla “tutela che l’ordinamento italiano fornisce agli azionisti di minoranza”. Persino la partecipazione azionaria è temuta come un pericolo per il potere economico! Spesso poi le politiche di buy back sono la premessa di operazioni di delisting, cioè di uscita di imprese dal mercato azionario.

Queste prime informazioni rivelano l’improponibilità delle formule dell’azionariato popolare o diffuso. Il rapporto di produzione capitalistico esige la scambiabilità 'immeditata' dei suoi valori: altro che la compartecipazione dei lavoratori ai destini dell’impresa. Le stesse politiche di sostegno ai piccoli e medi investitori, i cui risparmi dovrebbero essere dirottati ad arginare le spinte oligopolistiche della finanza, sono state fallimentari: i Piani individuali di risparmio registrano un deflusso di 640 milioni di euro nel 2024. Nel terzo libro de “Il Capitale”, Karl Marx precisa inequivocabilmente che il denaro investito è capitale, sottoposto alle sue logiche di valorizzazione, del tutto inconciliabile quindi con le esigenze di coesione sociale e di partecipazione diffusa.

Spiace che il Piano Draghi sulla competitività europea non ricorra prioritariamente a una imposizione fiscale fortemente progressiva, comprensiva di una seria patrimoniale, e indichi, fra gli strumenti di sostegno alla competitività europea, i fondi pensione e le cartolarizzazioni. Nel primo caso la previdenza da simbolo di solidarietà scade a opportunità di finanziamento del mercato. Nel secondo si introducono elementi di perturbazione già conosciuti con la crisi dei sub-prime ma - si legge quasi beffardamente nel rapporto Draghi - la cartolarizzazione consente “di trasferire parte del rischio agli investitori”. Il ricorso a un’imposizione fiscale progressiva, oltre a garantire una politica pubblica degli investimenti, ridisegnerebbe invece in senso solidale la società.

Non ci si può accontentare pertanto del discorso sull’inclusione, cui accenna il Piano Draghi. Abbiamo bisogno di politiche di segno universalistico se vogliamo salvaguardare l’essenza stessa della democrazia, il senso del nostro essere cittadini a prescindere da qualsiasi nostra condizione personale e sociale. Secondo Richard Titmuss, il welfare aziendale, ovunque spacciato per panacea alla crisi dei diritti, “tende a dividere le lealtà sociali, a rafforzare i privilegi e a ridurre la coscienza sociale” (Saggi sul Welfare, Roma, Ediesse, 1986, p. 58). Non è questa l’inclusione di cui può essere soddisfatto il sindacato.

La partecipazione dei lavoratori, che dobbiamo rivendicare, è data dall’articolo 3 della Costituzione: il contrario del recupero delle risorse salariali e pensionistiche per fini privati, o dello spezzettamento dei diritti in base alla nostra appartenenza professionale. Quella partecipazione dei lavoratori è riscrittura in senso universalistico dei poteri, è la cifra della democrazia, il significato dell’eguaglianza giuridica e politica che non si arresta davanti ai cancelli della fabbrica o di Wall Street. E’ questo lo snodo irrinunciabile per il sindacato, chiamato a riscoprire le parole di Pietro Ingrao: “La democrazia moderna è sovversiva in quanto rivela la sua incompiutezza, domanda di essere compiuta” (Masse e potere. Crisi e terza via, Roma, Editori Riuniti, 2013). E il compimento della democrazia si realizza nell’azione di ogni delegato sindacale che radica la rappresentanza del lavoro nel cuore della contraddizione capitalistica.

 

©2024 Sinistra Sindacale Cgil. Tutti i diritti riservati. Realizzazione: mirko bozzato

Search