Giovanna Ricoveri, scomparsa nei primi giorni dell’agosto scorso, è stata una sindacalista tenace e colta, femminista “costitutiva”, che già nella Filtea Cgil rappresentava un punto di riferimento, sia per la sua capacità di ascolto delle lavoratrici, sia per l’attenzione che riservava, negli spazi di contrattazione cui attendeva, al territorio e alla conversione ambientale.
Ho avuto modo non solo di averla compagna di viaggio, ma di diventarne profondamente amico, dato che la sua personalità attraeva l’intera mia famiglia, quando soggiornava a casa nostra per qualche vertenza che seguiva in Lombardia.
Ha lasciato una traccia profonda di originalità nella categoria tessile e ne è uscita per dedicarsi completamente all’ecologia politica di cui può dirsi pioniera, data la sua profonda affinità e amicizia con Martinez Alier, con cui introdusse in Italia la rivista “Capitalismo Natura Socialismo”, del cui comitato di redazione ho fatto parte anch’io, incontrando attraverso lei il pensiero di James O’Connor e la rete di Juan e Jéan-Paul Déleage.
La sua ecologia politica metteva al centro la relazione tra le scelte della politica e le leggi della natura, dando importanza allo stesso tempo al modo di funzionamento degli ecosistemi, alle leggi che li governano, e al “buen vivir” delle persone, alla giustizia e alla equità. Giovanna viene in contatto con Giorgio Nebbia e approfondisce con lui la “seconda contraddizione del capitalismo”, in cui si prevede una contraddizione tra capitale e natura, che articola e mette in crisi quella tra capitale e lavoro.
Con O’Connor e Nebbia, Giovanna muove la critica al capitalismo e alla sua incessante accumulazione, sposando però, a differenza di tanti altri, la prospettiva dei beni comuni. Innanzitutto, si chiede per quanto tempo ancora rimarranno nemici occupazione ed ambiente, ritenendo questa antinomia specifica di una impostazione teorica e di una pratica politica storicamente determinate, già praticate nelle guerre coloniali di conquista avviate dalla scoperta delle Americhe nel 1500 e definitivamente affermatesi in Europa a partire dalla rivoluzione industriale.
Secondo questa impostazione l’occupazione e la ricchezza derivano dall’accumulazione di capitale e sono frutto del lavoro umano, mentre l’ambiente inteso come natura è una risorsa inerte e anche “res nullius”, a disposizione degli esseri umani che la possono usare liberamente e illimitatamente per le loro attività di produzione e di consumo, creando il presupposto del paradigma industrialista o sviluppista.
La natura - afferma Giovanna - è stata così espunta, o meglio le è stato affidato un ruolo secondario e subalterno, ignorando o non volendo prendere in considerazione il fatto che essa è la biosfera; è l’ecosistema che ospita e nutre tutti gli esseri viventi, vegetali, animali e umani. Si è così dimenticato che la ricchezza e l’occupazione sono il frutto del lavoro “applicato” alla natura, come Marx ha spiegato nel Capitale. Solo la natura, trasformata dal lavoro umano, permette di ottenere i beni materiali necessari a soddisfare i bisogni umani. Anche i servizi, persino quelli apparentemente immateriali come la conoscenza e la comunicazione, la mobilità, il diritto alla casa, la salute, e persino la felicità, richiedono beni materiali come metalli, cemento, benzina, grano, acqua, e via di seguito.
La creazione e la difesa dell’occupazione non dipendono dunque dall’aumento dei consumi (compresi quelli superflui offerti dal mercato), come sostengono ancora oggi i leader e gli economisti della sinistra politica e sindacale. Dipendono piuttosto dal “carattere” dei beni necessari (che cosa produrre) per soddisfare i bisogni materiali e immateriali di una popolazione (per chi produrre) e sono strettamente legate alla disponibilità locale (dove produrre) della natura, intesa sia come fonte di materie prime che come ricettacolo di rifiuti.
Nel “palcoscenico” della vita, quello della tecnosfera, i cicli restano però tutti aperti e pertanto “ciascuno di noi si lascia alle spalle una natura impoverita e contaminata”. Alla fine dei processi economici e sociali, materia ed energia sono in parte dissipate e in parte diverse: sono diventate scorie e rifiuti, e modificano negativamente i corpi riceventi nei quali rientrano. Gli esseri umani inoltre non traggono le materie prime solo dai cicli naturali ma anche dai materiali immagazzinati nel corso delle ere geologiche precedenti (minerali, carbone, petrolio, gas), che non si riformeranno più in natura almeno nei tempi prevedibili della vita terrestre.
I guasti prodotti dal non tenere in conto l’ecologia biologica e l’ecologia politica sono stati enormi, E dobbiamo molto a Giovanna Ricoveri se oggi l’ecologia integrale (anche quella di Francesco) prende corpo con la riscoperta dei beni comuni. Antichi e nuovi. Come è possibile infatti fare società, se non abbiamo più niente in comune?
Su questo sfondo il ruolo pubblico della politica non può limitarsi al supporto del mercato, ma deve essere destinato principalmente alla tutela dei beni comuni.