Grazie a sacrificio e lotte di lavoratori di tante nazionalità inaugurata a Milano la linea M4 - di Stefano Ruberto

La funzione di rappresentante dei lavoratori sulla sicurezza di sito nel cantiere della metropolitana.

Quando prenderete le scale mobili per arrivare alla banchina della M4, alzate lo sguardo verso l’alto: vedrete delle impronte di mani sui pannelli grigi del contro soffitto, sono le mani dei sedicimila lavoratori che hanno progettato e costruito questa metropolitana, mani giovani e anziane, italiane e di mezzo mondo che hanno lavorato dal 2015 per realizzare questa nuova linea, inaugurata il 12 ottobre scorso.

Un cantiere così grande è una internazionale del lavoro, non solo per gli accenti e le provenienze ma anche per la divisione del lavoro che spesso corre di pari passo al livello di specializzazione, subappalto, salario. Nella parte più visibile, dalla superficie dei sessanta cantieri aperti per circa dieci anni in città, i guardiani sono quasi sempre africani, tra i meno pagati ma in alcuni casi anche i più istruiti. Chi fa il controllo accessi invece è sempre italiano, il badge di cantiere c’è e si registra tutto: chi entra, chi esce e a che ora, chi è autorizzato a lavorare e chi no.

Il cantiere sotterraneo è una piramide rovesciata dove in profondità, con le mega talpe che scavano, vanno a lavorare le squadre di operai più specializzati, tutti trasfertisti che si muovono per l’Italia o per il mondo e vivono nelle baracche predisposte presso i campi base del cantiere.

Un cantiere così grande è anche un mondo parallelo e allucinante. Nelle galleria d’estate fa fresco e si lavora anche bene e prima dell’installazione delle luci definitive c’era una luce verde diffusa quasi lunare, al passaggio dei mezzi e prima della posa dei binari, polvere e rumore della ventola di areazione che ti entra nella gola. In alcune fasi, ad una profondità di 35 metri, c’erano ponteggi alti, con acqua che dalle pareti spingeva fango a terra, e uomini che lavoravano con il pericolo costante che l’acqua di falda che spinge sulle pareti rompesse e allagasse tutto il cantiere, come accaduto a San Calimero a 25 metri di profondità.

In mezzo c’è di tutto, lo dicono i suoni delle centinaia di mansioni e lavori ma anche la musica che ogni squadra nel suo perimetro di lavoro ascolta con le casse bluetooth: musiche latino americane vicino ai cavedi dove passano tutti gli impianti elettrici, perché i posatori sono ecuadoregni, peruviani cileni; musiche balcaniche dei posatori di piastrelle, e arabe quelle di muratori e carpentieri, posatori di controsoffitti, tanti, organizzati in piccole squadre spesso per parentela, soprattutto egiziani, che non conoscono la lingua italiana, manovalanza di cemento e armature di ferro all’ennesimo subappalto per risparmiare qualche euro, spesso ipersfruttati dallo stesso sistema di reclutamento. Tra loro anche i lavoratori alias: chi va in cantiere con un badge intestato a un altro. Succede anche qua, nel cantiere più certificato che c’è.

In Largo Augusto, dove le squadre di operai stavano posando il ferro per costruire le banchine e la struttura delle stazioni, era inverno e durante la pausa pranzo, non avendo una baracca in superficie per consumare il pasto, stavano seduti sui ferri che avevano appena posato sottoterra, mangiando un panino in un ambiente certamente non pulito, senza luce e freddo.

La sicurezza un po’ insegue ma di strada comunque ne ha fatta. Ho visto l’intera casistica di tentativi di evadere la sicurezza da parte delle imprese per risparmiare qualche euro: certificati di formazione fatti tutti lo stesso giorno festivo e quindi falsi; distacchi di personale per aggirare i controlli previsti sui sub appalti, quindi lavoratori prestati da un impresa ad unaltra, ma senza alte specializzazioni, manovali che posano pietre e cordoli dei marciapiedi. In dieci anni ci sono stati centosettanta incidenti di varie entità: l’ultimo noto, per fare in fretta a inaugurare, un operaio piastrellista con fratture ad una gamba.

Anche una vittima, ricordata con una targa alla stazione San Cristoforo. Si chiamava Raffaele Jelpo, era un capo esperto, morto nel cantiere di piazza Tirana investito dal crollo di un concio in cemento staccatosi dal soffitto di un cunicolo. Dopo la sua morte è stata introdotta una tecnica di scavo diversa da quella utilizzata fino a quel momento.

In questo cantiere ho visto tanti volti, tante storie e tante incazzature. Ho toccato con mano, purtroppo, che la produzione non deve mai fermarsi, ho capito che la legalità non può mai essere separata dalla sicurezza in tutti i contesti di lavoro e che non bisogna limitarsi al proprio compito: oggi è necessario andare oltre e fare di più di quello che è previsto per garantire un lavoro sicuro.

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