Niccolò Nisivoccia, La storia di ognuno. Racconti dalla casa della carità, Castelvecchi, pagine 148, euro 17,50.
Ho avuto occasione di conoscere Niccolò Nisivoccia al festival Sabir, che si è tenuto a Roma dal 10 al 13 ottobre scorsi. Ero andata per ascoltare Luciana Castellina, che lo aspettava per parlare con lui. Abbiamo avuto poco tempo per chiacchierare durante un pranzo frettoloso, perché Castellina doveva partecipare a un dibattito di lì a poco. Ma poiché Luciana, oltre a tutto il resto, è anche una mappa di intrecci umani e di relazioni con compagnə preziosə, io mi sono subito offerta di recensire l’ultimo libro di Nisivoccia su Sinistra Sindacale, che ringrazio per questo spazio.
Così in questi giorni di ottobre ho iniziato a scorrere le pagine di “La storia di ognuno”, in cui Nisivoccia ha raccolto le parole con cui un pugno di ospiti della Casa della Carità di Milano gli ha raccontato le proprie vicende umane. Le storie sono quelle di migranti, rifugiati, donne vittima di violenza, ex detenuti, senza fissa dimora, persone con problemi di salute mentale, lo sporco sotto il tappeto di un tempo in cui ciascuno pensa per sé e nessuno vuole, può ascoltare.
“La storia di ognuno” è un libro senza fronzoli o infiorettature, in cui quello che colpisce è il rispetto per le parole, proprie e degli altri, in un contrasto stridente con l’uso sciatto e cattivo che delle parole senti fare quando alzi gli occhi dal libro e passi alla tv e ai giornali. In un tempo in cui il vicepresidente del Consiglio commenta la morte violenta di un ventiseienne con problemi di salute mentale dicendo “non ci mancherà”, o in cui il presidente del Senato definisce la Carta costituzionale “confusa”, ti rendi conto che l’ascolto attento e il rispetto per le parole, questa mite attenzione, assumono una dimensione politica potente e in qualche modo musicalmente e armoniosamente rumorosa.
La Casa della Carità diventa, in questo contesto, un microcosmo di resistenza, un luogo che cerca di ricostruire un senso di comunità e di supporto reciproco, raccontare questo microcosmo è un gesto politico.
Il problema, che travalica il libro e che ora affrontiamo tuttə, è passare dai gesti politici ad una assunzione di responsabilità collettiva che trasformi i gesti in una convinta offerta politica alternativa. Questo passaggio faticoso sembra proprio che non riusciamo a farlo.
Il primo passo sarebbe uscire dalla coazione che ci riporta sempre ad allinearci alla rappresentazione mainstream del mondo, che in realtà è solo un punto di vista sul mondo e non il mondo stesso.
Durante una recente iniziativa ho ascoltato da Francesca Fornario, e gliela rubo, la storiella dei pesci, che David Foster Wallace utilizzò in un suo discorso in un’università americana. Un pesce vecchio incontra due pesci giovani, fa loro un cenno di saluto e dice: “Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua oggi?” I due si allontanano perplessi e uno chiede all’altro: “Che ne sai qualcosa tu? Ma che cavolo è l’acqua?”. Ecco, nell’acqua che non vediamo più ci siamo impantanati anche noi perché parlarne è faticoso, comporta ascolto, analisi, un impegno insidioso e pieno di rischi.
La povertà dilagante e colpevolizzata, la svalutazione progressiva della dimensione collettiva della dignità sociale composta dai tasselli, sfilati uno per uno, del diritto alla retribuzione giusta e a un’esistenza non precaria, alla salute, alla casa, all’istruzione, la ridicolizzazione del dovere di ciascuno di contribuire all’esistenza libera e dignitosa di tutti, non sono l’inevitabile realtà ma un punto di vista che la informa.
Ce la faremo mai a ripartire, insieme, da qui?