Il titolo è voluto, per ricordare a tutti che il 7 ottobre del 2023 non è lo spartiacque. La tragedia del popolo palestinese trova la sua origine nel lontano 1947 con la Nakba, che coincide con la nascita dello Stato di Israele, e che ha provocato la deportazione di oltre 700mila palestinesi, interi villaggi rasi al suolo, massacri compiuti; nel 1967, con la guerra dei sei giorni, quando tutta la Palestina storica veniva occupata militarmente; nel 1982 con il massacro di Sabra e Shatila in Libano, dove sono stati uccisi oltre 4mila civili palestinesi; nel 1993: data in cui Rabin ed Arafat firmarono gli accordi di pace.
Poi abbiamo il 7 ottobre 2023.
Il periodo dal 7 ottobre ad oggi è stato il più sanguinoso della storia della lotta del popolo palestinese per la libertà, l’indipendenza e la pace. Le vittime palestinesi sono quasi 43mila, di cui circa 17mila bambini, 11mila donne, e circa 100mila i feriti. Si stimano oltre 15mila dispersi, oltre 11mila detenuti nelle carceri israeliane, di cui 150 minori. I giornalisti e gli operatori sono stati colpiti pesantemente: oltre 110 le vittime, 32 feriti e 44 dispersi, presi di mira per non avere testimoni e diffondere solo la narrazione del governo israeliano.
La Banca Mondiale, secondo al Jazeera, stima che i danni economici a Gaza superino i 35 miliardi di dollari. Secondo altre fonti il 90% delle infrastrutture è distrutto, tra cui 470 istituzioni scolastiche, il livello di povertà tra gli abitanti è al 100%, l’inflazione è al 200%, il pil di Gaza, se si possono considerare validi questi indici in un simile contesto, dove la gente ha perso tutto, è sceso del 93%. Altri danni non possono essere misurati da nessun indice di qualsiasi natura: danni psicologici, fisici, paura, terrore. Quei 17mila bambini che hanno perso tutta la loro famiglia che vita avranno?
Tra i morti ci sono purtroppo bambini morti di fame: gli abitanti di Gaza sono sfollati, sono stati evacuati varie volte su ordine dell’esercito israeliano e, come dichiara l’Onu, a Gaza non c’è nessun posto sicuro. Siamo alla vigilia della stagione invernale e non si sa come milioni di persone possano affrontarla in tende fatte di vestiti e tessuti usati e plastica.
Ricordare quando, 32 anni fa, al passaggio delle camionette israeliane si sventolava la bandiera palestinese, seppur vietata, e si faceva qualche foto con i soldati - entusiasmo per la formula “due Stati per due Popoli”, volontà di pace da entrambe le parti - e pensare a ciò che sta accadendo oggi, ci porta a chiederci cosa sia successo e cosa è cambiato.
Eravamo consapevoli dell’ingiustizia che subivamo dall’accordo del 1993, ma altrettanto consapevoli che quel percorso era l’unica via di uscita per una pace durevole tra noi e gli israeliani, che garantisse stabilità e prosperità per tutti i popoli della regione. Nonostante le varie questioni irrisolte dell’accordo di Oslo, nonostante l’attribuzione solamente del 22% della Palestina storica al futuro Stato palestinese, i nostri profughi, la questione di Gerusalemme, le risorse naturali, i confini e così via, la nostra scelta era di carattere strategico.
A distanza di 32 anni, le politiche dei vari governi israeliani di destra e di sinistra hanno svuotato quell’accordo (basti pensare al periodo di transizione di cinque anni in cui doveva nascere lo Stato palestinese, la costruzione massiccia degli insediamenti con 800mila coloni che vi abitano, la discontinuità territoriale). Senza dimenticare la responsabilità e gli errori commessi dal nostro gruppo dirigente dell’Anp e dai vari movimenti e partiti palestinesi, che non hanno saputo o voluto superare la vergognosa divisione che dura da anni.
Il genocidio del popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania ad opera di Israele ha piantato l’ultimo chiodo sulla cassa della defunta equazione “due Stati per due popoli”. Oggi il livello di fiducia dei palestinesi nei confronti di ciò è ai minimi storici, così come per l’intenzione di Israele di fare la pace, della comunità internazionale che assiste al massacro del popolo palestinese senza fare nulla. Lo stesso livello di fiducia si applica anche all’attuale gruppo dirigente palestinese, che ha dimostrato di non essere all’altezza del periodo storico.
Torna all’orizzonte una vecchia/nuova rivendicazione del movimento di liberazione palestinese: la creazione di uno Stato palestinese dal fiume Giordano al mare Mediterraneo, dove possano convivere tutti i cittadini di varie fedi religiose e appartenenze etniche con pari diritti e doveri, uguali davanti alla legge. Uno stato pluri-confessionale con pesi e contrappesi istituzionali che ne garantiscano il funzionamento.
Il 19 luglio scorso la Corte Internazionale di Giustizia ha risposto al quesito dell’Assemblea generale dell’Onu sull’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele. Il parere della Corte afferma diversi principi fondamentali, e sancisce l’illegalità dell’occupazione dal 1967 dei territori palestinesi e degli insediamenti costruiti nei territori, chiedendo il ritiro dell’esercito israeliano e al Consiglio di Sicurezza e all’Onu di operare per garantire il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Chiede inoltre lo svuotamento degli insediamenti in quanto illegali, affermando il diritto del popolo palestinese a fondare il suo Stato sovrano secondo il diritto e la legalità internazionale.
L’Anp ha accolto con favore il parere della Corte, definendolo storico e rilanciando la richiesta della sua applicazione: oltre 56 Stati arabi e musulmani hanno accolto con favore questo verdetto appoggiando la richiesta dell’Anp.
Imbarazzo e difficoltà dominano le cancellerie occidentali, che hanno sempre dichiarato di appoggiare la soluzione “due Stati per due popoli” ma hanno operato in direzione opposta: l’aggressione israeliana a Gaza e in Cisgiordania rappresenta la prova inconfutabile del loro comportamento.
In questo scenario ci troviamo di fronte a sviluppi alternativi. In primis, il rifiuto di Israele di applicare quel verdetto, forte del sostegno del mondo occidentale, di conseguenza l’espansione dell’attuale conflitto coinvolgendo tutta la regione. Israele ha già aperto diversi fronti, ha già iniziato l’invasione del Libano, ha varie volte bombardato la Siria e lo Yemen, ha compiuto azioni militari in Iran. Sicuramente ci sarà una reazione di Al Houthi e dell’ “asse della resistenza” e abbiamo visto la reazione parziale dell’Iran il primo ottobre scorso, quando ha bombardato Israele con missili balistici.
All’opposto, come affermano anche diversi intellettuali e giornalisti, finalmente l’Occidente e gli Usa possono obbligare Israele a sedersi al tavolo delle trattative e a riprendere il confronto, fissando una data certa e precisa per la nascita della Stato palestinese quale Stato sovrano, secondo l’indicazione della Corte, il diritto e la legalità internazionale. L’Ue potrebbe giocare un ruolo da protagonista per facilitare questo percorso, con un piano finanziario per sostenere i due Stati, Israele e Palestina, ad uscire da un’economia di guerra, e creando uno status giuridico speciale della Palestina e di Israele di associazione all’Unione europea.
Se il percorso dei due Stati per due popoli rimane solo come slogan, la scelta obbligata è il ritorno al passato: il ritiro del riconoscimento di Israele da parte dell’Olp e la rivendicazione di uno Stato palestinese pluri-confessionale. Una scelta che presuppone l’unità di tutti i movimenti palestinesi di matrice laica e religiosa, compresi Hamas e Jihad Islamica, dentro l’Olp, la revisione della carta costituente dell’Olp, il rinnovamento dello stesso movimento di liberazione.
Due considerazioni finali. L’Occidente non permette la sconfitta di Israele, perché non si fida di nessun governo della regione, neanche dei più stretti alleati arabi e musulmani, e vista l’importanza della regione dal punto di vista geopolitico - un terzo del commercio mondiale passa dallo Yemen - e per il petrolio. Ma questa guerra è diventata imbarazzante per lo stesso Occidente, basta pensare alla mobilitazione dei giovani in tutto il mondo, compresi gli stessi Usa.
Anche l’Iran non può permettersi la sconfitta dell’ “asse della resistenza” (Hamas, Jihad Islamica a Gaza, Houthi in Yemen, milizie in Iraq e Siria, Hezbollah in Libano), perché dovrebbe rinunciare al progetto di essere paese leader nella regione, dilapidando oltre vent’anni di sforzi enormi, a meno che non ottenga il semaforo verde per le trattative con l’Occidente sui suoi centri nucleari. L’uccisione di Ismail Haniyeh nel suo territorio, e quella del capo di Hezbollah, Nasrallah, e di altri leader militari e politici alleati, lascia pensare che qualcosa stia succedendo anche dentro il regime iraniano.
Tocca alla diplomazia internazionale trovare il modo di fermare il massacro a Gaza, in Cisgiordania e in Libano prima che sia troppo tardi. Un eventuale bombardamento di Israele su siti nucleari iraniani avrebbe effetti devastanti in termini ambientali, di salvaguardia dei diritti umani per tutte le persone nella regione, e conseguenze incalcolabili in termini militari.
Secondo i pareri di alcuni esperti, Israele ha perso la guerra perché non ha realizzato nessun obiettivo dichiarato, compreso il ritorno degli ostaggi, ha ucciso oltre 42mila civili, ha usato la fame come arma e non ha sradicato Hamas. Hamas, da parte sua, potrebbe cantare vittoria perché non è stata eliminata, secondo la regola per la quale quando il forte non stravince significa che ha perso, e quando il debole sopravvive significa che ha vinto.
Invece hanno perso entrambi: bisogna chiederlo alle mamme che non hanno nemmeno potuto seppellire i loro piccoli, chiederlo ai bambini che sono diventati orfani di entrambi i genitori se hanno vinto oppure no, chiederlo agli uomini torturati dai soldati israeliani nelle carceri. Si vincerà solo quando entrambi avranno il coraggio di guardare con empatia negli occhi di tutte le persone toccate dalla guerra, che siano madri, padri, figlie, figli. Iniziando a discutere di pace.
(6 ottobre 2024)