Verso il referendum abrogativo. L’autonomia differenziata fa male anche al Veneto - di Enrico Ciligot

Il 23 settembre scorso la Cgil Veneto ha promosso un incontro di discussione del libro “Perché l’autonomia differenziata fa male anche al nord”, presente l’autore Stefano Fassina. Va ricordato che la Regione Veneto è a guida centrodestra dal 1995, con il presidente Galan (Forza Italia) fino al 2010cui è subentrato Luca Zaia (Lega) dal 2010 ad oggi.

Nel 2017 proprio Zaia ha indetto un referendum consultivo affinché al Veneto fossero “attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, con la partecipazione al voto del 57,2% degli aventi diritto e il 98,1% di voti favorevoli. Il tema proposto da Fassina mette dunque i piedi nel piatto in una regione in cui solo la Cgil si è opposta senza se e senza ma alle finalità e ai contenuti dell’iniziativa della giunta regionale.

Il referendum abrogativo ormai probabile, visto l’esito positivo della raccolta delle firme, ha riacceso il dibattito sulla difesa della Costituzione e dei suoi valori intramontabili. Fassina non affronta il tema dell’autonomia differenziata con gli argomenti noti sulla solidarietà nazionale, né con le motivazioni sul sud abbandonato dall’egoista nord che difende i propri interessi economici. Espone, invece, un punto di vista pragmatico, dimostrando con dati, numeri e analisi economiche le probabili conseguenze negative della legge Calderoli anche per il ricco nord.

Prima di tutto, secondo l’autore, l’impianto della riforma prevede un sistema iper-federalista estremamente rigido. Infatti l’atto normativo fondativo del trasferimento delle funzioni nazionali (l’intesa tra governo centrale e presidenti delle Regioni) è immodificabile nel breve e medio periodo. Dovrebbe avere una durata decennale e non può essere modificato senza il consenso della Regione interessata. Contestualmente le funzioni attribuite non possono essere modificate dal legislatore nazionale.

A parere dell’autore, decisioni di politica economica in merito alla regolazione dei mercati si possono decidere solo a livello nazionale e nei tavoli europei, non in ordine sparso nelle Regioni. Ciò potrebbe avere delle conseguenze negative di potere negoziale del governo, con ricadute anche sulle aziende e quindi su lavoratrici e lavoratori.

Il combinato disposto del più grande trasferimento di poteri, funzioni e risorse dallo Stato alle Regioni (con la possibilità di trasferire la potestà legislativa su intere materie e non solo funzioni specifiche), e l’interpretazione ipertrofica della legge Calderoli, comporterebbero “rischi altissimi di dumping regolativo in un contesto di regionalismo competitivo” e soprattutto – sottolinea Fassina – “dumping fiscale, sociale e salariale” tra Regioni, con una “corsa al ribasso sul cuneo fiscale (ad esempio attraverso la riduzione delle addizionali regionali e locali all’Irpef), sulla regolazione del lavoro e della sua sicurezza, sugli standard ambientali e alimentari. Le prime vittime sarebbero lavoratrici e lavoratori delle imprese del nord”. Ogni Regione potrebbe infatti, con una propria legislazione anche su materie decisive per l’efficacia produttiva, incidere sulla competitività delle aziende stesse.

C’è poi il rischio concreto che salti il contratto nazionale. I lavoratori potrebbero trovarsi in competizione non solo con quelli di altri Stati Ue con tassazione e salari più bassi, ma anche con condizioni al ribasso diversificate per ogni regione.

Insomma, conflitto Stato-Regioni e conflitto Regione-Regione.

Non a caso questa riforma è riuscita nell’impresa di suscitare perplessità e critiche da parte di Banca d’Italia, Ufficio parlamentare di bilancio, Confindustria, associazioni dell’artigianato e del commercio, sindacati, Anci, esperti, studiosi, e perfino la Chiesa.

Pier Luigi Bersani, nella prefazione del saggio, è definitivo: “Siamo al disegno di uno Stato Arlecchino’ in cui ciascuna Regione contratta competenze e funzioni à la carte, senza peraltro alcun controllo parlamentare nella fase di attribuzione di poteri e risorse e senza un presidio istituzionale centripeto nei rami alti, ossia senza una Camera delle autonomie territoriali, (...). Inoltre, data la durata decennale dell’intesa (...) e dato il potere di veto riconosciuto, di fatto al governo regionale sulle revisioni, manca completamente flessibilità al sistema istituzionale, né vi sono efficaci barriere all’edificazione di un potente centralismo regionale a scapito dei Comuni.

La legge Calderoli è priva di qualsiasi riferimento a specificità proprie del territorio, che dovrebbe essere il cuore di ogni politica autonomista, ma trasferisce potenzialmente tutte le materie, in nome di una presunta superiorità ed efficienza, delle Regioni, che le metterebbe in una competizione esasperata tra loro.

Ora il referendum. Il primo scoglio da superare sarà il quorum, convincere gli italiani dell’importanza di questo voto. Per questo è necessaria una grande campagna informativa e di mobilitazione, con la Cgil in prima fila per promuovere la partecipazione al voto e il “Sì” all’abrogazione di questa autonomia differenziata.

 

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