Youssef. Morto in carcere a 18 anni - di Denise Amerini

Youssef è morto. Morto carbonizzato in carcere, dove era recluso in attesa di giudizio, a soli 18 anni. Youssef, arrivato in Italia dopo aver vissuto i campi di concentramento e le torture in Libia, dopo un viaggio che lo aveva visto attraversare il Mediterraneo legato mani e piedi. Un ragazzo con importanti problemi di sofferenza psichica. Morto in un carcere sovraffollato all’incredibile, dove non avrebbe dovuto stare. Un carcere dove sono presenti 1.100 detenuti, a fronte di 445 posti disponibili. Un luogo dove lo Stato dovrebbe prendersi cura di chi ha in custodia, dove le strutture, le forniture dovrebbero essere adeguate a prevenire e impedire certi episodi, autolesionismo, suicidi. Un esempio. I materassi ignifughi. Ci sono? Dove sono?

La situazione delle carceri, veri e propri contenitori di marginalità, disagio, sofferenza, vere e proprie discariche sociali, è ormai davvero al limite. Ce lo dicono i numerosi, troppi suicidi, arrivati ormai a 70. Ce lo dicono le tante proteste, legate all’invivibilità degli spazi, all’assenza di veri percorsi di socializzazione e rieducazione. Problemi che quotidianamente si registrano e che rischiano di sfociare in rivolte.

È la negazione dei diritti e della dignità delle persone, anche di chi dentro il carcere lavora, costretto a compiti di mera sorveglianza, in ambienti degradati e fatiscenti, con dotazioni organiche e professionalità inadeguate. È la negazione della clemenza, del rispetto per le persone, dell’umanità che dovrebbe informare ogni pena, ogni percorso di giustizia. Che ci imporrebbe la nostra Costituzione, l’articolo 27 sempre richiamato e mai così disatteso.

Il governo, in tutto questo, continua con provvedimenti di facciata, come il decreto Nordio sulle carceri, che è stato motivato da requisiti di urgenza, ma che già abbiamo, anche in queste pagine, definito inutile, perché non ha e non avrà nessun effetto sul sovraffollamento, perché non interviene in maniera concreta e significativa sulle dotazioni organiche (500 assunzioni di personale di polizia penitenziaria nel 2025, 500 nel 2026, e nulla per quanto riguarda le altre indispensabili e carenti professionalità come educatori, mediatori culturali, psicologi), perché non modifica le condizioni di vita all’interno degli istituti, perché non ha nessun effetto sul quantum di pena di scontare.

A questo si aggiunge il 'decreto sicurezza', attualmente in discussione alla Camera, che prevede la non obbligatorietà del differimento della pena per le donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età. In merito a questo particolare provvedimento, vogliamo sottolineare che la campagna “Madri fuori dal carcere, con i loro bambini” ha promosso un appello, al quale è possibile aderire, il cui testo è pubblicato sul sito di Società della Ragione:

https://www.societadellaragione.it/campagne/carcere-campagne/madri-fuori/no-al-carcere-per-le-donne-incinte-appello-della-societa-civile-contro-il-disegno-di-legge-sicurezza/

La direzione è sempre la stessa: un giustizialismo sfrenato, una logica esclusivamente punitiva, che nega ogni processo rieducativo. Del resto, anche la sorveglianza dinamica è stata messa in soffitta, sia per la mancanza di personale, sia perché la logica è quella di chiudere i detenuti in cella, dove scontare pene severe, “certe”. Dove marcire. Perché, come qualcuno ha avuto modo di affermare, le carceri non sono alberghi. E, allora, cosa c’è di strano se stanno in dieci in celle pensate per quattro persone, se il cibo è insufficiente e scadente, se non ci sono le docce, se manca l’acqua calda, se i cessi sono a vista, se fa un caldo torrido d’estate e un freddo gelido d’inverno?

A questo si aggiunge la sofferenza psichica di tantissime persone ristrette, sofferenza alla quale si risponde esclusivamente con gli psicofarmaci, aggravata dalle condizioni di vita e dalla mancanza di occasioni di socializzazione, di formazione, di lavoro. Dalla mancanza di prospettive: non è un caso che la maggioranza dei suicidi avvenga al momento dell’ingresso in carcere per l’impatto con una realtà così devastante, o in prossimità della scarcerazione, proprio per l’assenza di prospettive.

Allora serve davvero una svolta, una grande mobilitazione civile. Lo dobbiamo a Youssef, lo dobbiamo ai tanti ragazzi rinchiusi nei minorili, ai quali vanno davvero offerte occasioni e possibilità concrete di un futuro migliore: soprattutto per loro la pena dovrebbe essere l’extrema ratio, ed essere davvero un’occasione di formazione, di istruzione, di rieducazione.

Servono alternative concrete al carcere, che permettano di superare il carcere come unica risposta possibile, che si promuovano pene alternative vere, in stretto legame con i territori e la comunità.

 

©2024 Sinistra Sindacale Cgil. Tutti i diritti riservati. Realizzazione: mirko bozzato

Search