Caporalato, Veneto laboratorio dello sfruttamento - di Giosuè Mattei

Togliamoci le lenti con le quali abbiamo osservato il fenomeno dello sfruttamento lavorativo e del caporalato come marginale e circoscritto al meridione. Iniziamo, piuttosto, a osservarlo come un fenomeno strutturato nell’economia del Paese, come fenomeno transnazionale che interconnette i caporali nei nostri territori e gli intermediari nei paesi di origine degli sfruttati, nel settore agricolo ma non solo. Se le istituzioni, gli organi ispettivi, le forze dell’ordine assumessero questo punto di vista, la conseguenza immediata sarebbe nell’approccio per contrastare il fenomeno: non con interventi spot e isolati correlati a fatti di cronaca, come l’omicidio di Satnam Singh. Sarebbe quello che ha consentito di combattere le grandi organizzazioni criminali come le mafie, osservandone le interconnessioni, contrastandole nella loro interezza e complessità.

Questa premessa non è esagerazione, né sensazionalismo, è il risultato delle “indagini” e delle esperienze maturate sul campo negli ultimi mesi dalla Flai Cgil in tutto il territorio veneto, dove abbiamo osservato che dietro lo sfruttamento nei campi di raccolta ci sono raffinate metodologie di arruolamento internazionale, che colgono le opportunità dell’assenza totale di controlli e delle pieghe normative in materia di immigrazione.

Quello che sta accadendo e che stiamo misurando in Veneto è il risultato drammatico del combinato disposto esplosivo, dal punto di vista sociale, dei decreti flussi così come disciplinati da questo governo, e della Legge Bossi-Fini.

A luglio la Flai Cgil ha presentato 15 denunce per conto di altrettanti braccianti indiani sfruttati nel territorio trevigiano, che vivevano in condizione di schiavitù in un casolare con 50 persone, senza luce, acqua e gas, in assenza di ogni presidio igienico-sanitario. Lasciati nei campi fino alle 22, dopo il lavoro, per essere riportati all’alloggio con il favore del buio. Hanno pagato l’acquisto del nullaosta nel loro paese di origine, giunti in Italia sono stati mandati a lavorare in condizioni di sfruttamento nelle campagne trevigiane dove il caporale ha chiesto ulteriori 5.000 euro per il permesso di soggiorno.

Il meccanismo è raffinato. Esiste un triangolo dello sfruttamento che coinvolge il Veneto, la Campania (Napoli e Caserta) e il Lazio (Latina). Vengono costituite aziende agricole di comodo, oppure vengono offerti fino a 2.500 euro ad aziende autoctone per emettere la richiesta di manodopera, e, una volta accolta la richiesta dalla Prefettura, vengono emessi i nullaosta verso i paesi di origine.

I lavoratori pagano fino a 15.000 euro il nullaosta a intermediari nel loro Paese che, abbiamo documentato, fanno pubblicità sui social network. Per pagare una somma così ingente sono costretti a indebitarsi pesantemente, e ricevono minacce se non riescono a pagare il loro debito. Una volta giunti in Italia non vengono accolti dalle aziende che ne hanno fatto richiesta, ma vengono indirizzati verso i caporali nei vari territori, i quali con la promessa di un lavoro e di una casa chiedono ulteriori 5.000 mila euro per il permesso di soggiorno. Se il lavoratore paga indebitandosi ulteriormente gli viene presentato un kit postale che viene compilato sommariamente e senza nessuna documentazione allegata, solo per l’ottenimento della ricevuta di trasmissione che sostituisce il permesso fino all’appuntamento in Questura per il fotosegnalamento.

Con questa truffa il lavoratore lavorerà senza ottenere nessun compenso, a causa del debito contratto con intermediari e caporale che ha dovuto pagare precedentemente, e senza sapere che il permesso non arriverà mai. Questo è il risultato dei mancati controlli delle Prefetture e delle Questure coinvolte (l’80% dei nullaosta provengono dai territori di Verona, Caserta, Napoli), del coinvolgimento di associazioni compiacenti come Coopagri, di alcune società di servizi per migranti colluse con questo sistema, di taluni professionisti.

I lavoratori che hanno avuto il coraggio e la forza di denunciare si trovano oggi in luoghi protetti, in un percorso di emersione e integrazione con l’apprendimento della lingua italiana, in attesa che venga rilasciato il permesso di soggiorno, come previsto dalla legge 199/2016, per potersi rioccupare in regola e riacquistare la dignità calpestata nel nostro Paese. Ci siamo presi cura di loro e ce ne siamo fatti carico perché abbiamo conosciuto le storie di sfruttamento, abbiamo avuto il privilegio di conoscere gli uomini.

Non ci fermeremo: abbiamo presentato negli ultimi giorni altri esposti alla polizia giudiziaria che riguardano lo sfruttamento, in due contesti diversi, di circa 80 lavoratori, fra cui una donna. Ma fintanto che non si giungerà all’abrogazione della legge Bossi-Fini, sostituendola con una legge che consideri la dignità delle persone, e fintanto che il tema immigrazione verrà visto dal punto di vista ideologico con un approccio securitario e non di opportunità, questo cancro non verrà estirpato dalla nostra società e dalla nostra economia.

 

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