Dopo la cacciata di Sheihk Hasina, dove va il Bangladesh? - di Leopoldo Tartaglia

Dopo quindici anni al potere, il 5 agosto scorso la presidente del Bangladesh Sheihk Hasina si è dimessa e ha lasciato il paese, cacciata dai manifestanti.

Quello che ha avuto inizio come un movimento contro le quote nelle assunzioni nel pubblico impiego, si è sviluppato in una vera e propria insurrezione contro il governo autoritario di Hasina e del suo partito, la Lega Awami. La svolta è arrivata dopo cinque settimane di manifestazioni e proteste duramente represse, con di più di quattrocento morti e diverse migliaia di persone ferite e disperse.

Con la cacciata di Hasina giunge probabilmente alla sua conclusione il ciclo politico della Lega Awami, iniziato nel 2008, quando l’alleanza di quattordici partiti con cui si era presentata alle elezioni riuscì a conquistare una maggioranza di 263 seggi su 300. Una vittoria storica che portò la Lega al potere per la terza volta, dopo i periodi 1971-1975 e 1996-2001, in un paese drammaticamente lacerato dai conflitti politici e sociali, continuamente sotto la minaccia di “governi di garanzia” delle forze armate: in sedici dei suoi primi vent’anni di esistenza (dall’indipendenza del 1971), il Bangladesh è stato governato direttamente dai militari o da esecutivi appoggiati dalle forze armate.

Vista come una forza laica, per le sue radici storiche e il suo ruolo preminente nella guerra di liberazione, la Lega aveva potuto contare dal 2007 su un nuovo movimento della società civile che chiedeva processi per i criminali di guerra che avevano collaborato con l’esercito del Pakistan occidentale durante la guerra d’indipendenza.

Il Partito nazionalista del Bangladesh, cacciato all’opposizione dopo cinque anni di governo (2001-06), si era presentato alle elezioni in alleanza con il Jamaat-e-Islami, un gruppo islamico radicale. Gli osservatori considerarono il risultato delle elezioni del 2008 come un pubblico rifiuto degli ideali islamisti radicali e della politica di ispirazione confessionale, ma il governo del Partito nazionalista era caratterizzato dalla corruzione e dagli attacchi contro le opposizioni, incluso un tentativo di uccidere Hasina, allora leader dell’opposizione.

Nel 2014 i nazionalisti si ritirarono dalle elezioni, denunciandone la scorrettezza, chiedendo le dimissioni di Hasina dalla guida del governo, a favore di una figura terza per garantire il processo elettorale. Una scelta disastrosa che regalò la vittoria alla Lega Awami, con 153 eletti su 300. Confermata al potere, la Lega riprese a sua volta le operazioni per bloccare le attività del Partito nazionalista, con migliaia di processi contro dirigenti ed esponenti del partito, con accuse di ogni tipo, dalla corruzione fino all’omicidio. I nazionalisti, dopo il 2014, si diedero alla lotta violenta, dando la possibilità al governo di intensificare le azioni repressive: persino Khaleda Zia, che era stata due volte alla guida del paese, nel febbraio del 2018 si ritrovò incarcerata con accuse di corruzione.

I gruppi islamisti, dopo diversi accordi elettorali con i nazionalisti, ora in declino, iniziarono a presentarsi autonomamente alle elezioni, mentre la Lega Awami, contrariamente alla propria storia secolare, formò un’alleanza con il Hefazat-e-Islam, un gruppo islamista responsabile degli assassini di alcuni autori di blog laici. Così il fronte guidato dalla Lega ha unito diversi partiti di matrice islamista conservatrice, e il governo di Hasina ha fatto diverse concessioni a queste forze radicali, in contraddizione con la rivendicazione della Lega Awami di essere la protettrice dei diritti della minoranza induista del Bangladesh.

Con il passare del tempo la presa del partito sullo Stato si è fatta sempre più forte, anche sul sistema dei mezzi di comunicazione, e alla fine del 2018 si poteva considerare completo il controllo del partito sulla burocrazia, sul sistema giudiziario e persino sulle forze armate. Le elezioni dello stesso anno portarono a una vittoria oltre ogni aspettativa: la Lega Awami ottenne 288 seggi su 300.

Le elezioni di quest’anno hanno visto tutta l’opposizione non partecipare al voto, con lo spostamento di tutte le forze contrarie al governo in un ambito extraparlamentare.

Tre giorni dopo la fuga di Hasina, Muhammad Yunus, economista e Premio Nobel per la Pace nel 2006, ha giurato come capo di un governo provvisorio di diciassette membri, composto da ex-burocrati e militari in pensione, esponenti di organizzazioni non governative, esperti di legge, accademici e, tra gli altri, da due dei leader studenteschi della rivolta contro Hasina. Una squadra varia sotto molti punti di vista, con differenti gruppi etnici e religiosi, ma senza alcuna rappresentanza della classe lavoratrice.

La costante erosione delle istituzioni democratiche ha generato un odio diffuso nei confronti dei partiti politici nel Bangladesh, e la figura di Yunus si è rivelata ideale da porre alla guida di un governo provvisorio che dovrebbe traghettare il paese a nuove elezioni entro novanta giorni.

Il fatto di essere stato egli stesso bersaglio delle persecuzioni di Hasina e di essere giunto quasi a lasciare il paese ha aumentato le simpatie e le aspettative nei suoi confronti, anche se il suo ruolo di promotore di schemi di microcredito, da molti ritenuti lontani dal rappresentare una vera cura per la povertà nelle aree rurali, e il suo sostegno alle politiche di stampo neoliberale che lo hanno reso un beniamino dei governi occidentali e della Banca Mondiale, alimentano una certa diffidenza da parte delle classi lavoratrici e popolari.

Con la Lega Awami totalmente delegittimata, le due rimanenti forze politiche, il Partito nazionalista e il Jamaat-e-Islami, sperano di giungere presto alle elezioni e al governo. La forza islamista sembra essere adeguatamente organizzata in tutto il Bangladesh per raggiungere lo scopo, e non vorrà lasciarsi sfuggire l’occasione.

L’insurrezione di luglio ha avuto successo nel mettere insieme componenti del mondo sociale molto diverse tra loro, ma con rivendicazioni molto generali sulla libertà, come già avvenuto in passato nella lotta contro i regimi autoritari, e senza un chiaro profilo ideologico di riferimento.

Gli studenti hanno dato inizio alla protesta per fermare il sistema delle quote nelle assunzioni nella pubblica amministrazione, ma a causa all’efferata repressione altri settori della società si sono uniti, incluse componenti importanti della classe media e della classe lavoratrice, giungendo alle masse che hanno cacciato Hasina.

Gli studenti hanno acquistato molta fiducia tra i ceti popolari. La speranza è che riescano a costruire un’agenda politica realmente trasformativa. Oltre alle richieste di maggiore democrazia e di rispetto dello Stato di diritto, una simile agenda dovrebbe includere obiettivi economici, a partire da salari migliori e da una maggiore protezione sociale, ma anche una chiara azione ambientale e climatica, considerando l’enorme esposizione del Bangladesh e della sua popolazione alle catastrofiche conseguenze dei cambiamenti climatici in corso.

Sul lungo periodo, gli eventi dei mesi scorsi porteranno a risultati positivi soltanto se la classe lavoratrice e altri gruppi oppressi saranno capaci di prendere un ruolo preminente, superando le divisioni etniche e religiose che dilaniano il Bangladesh.

Con oltre 173 milioni di abitanti (il 60% sotto i 25 anni) il Bangladesh è l’ottavo paese più popoloso al mondo ed uno dei più densamente abitati. Per reddito (8.863 dollari annui il pil pro-capite p.p.a. nel 2023) e struttura economica, è un paese in via di sviluppo, nell’ultimo trentennio sempre più meta di investimenti esteri nell’industria manifatturiera, prevalentemente tessile e abbigliamento, nella catena globale del valore.

Insieme alle grandi tragedie dello sfruttamento da parte delle multinazionali occidentali – fra tutte il crollo del Rana Plaza nella Grande Area di Dacca il 24 aprile 2013, con 1.134 morti e oltre 2.515 feriti – nel Bangladesh sta crescendo un movimento sindacale e di lavoratrici e lavoratori che faticosamente – pur fra repressioni e enormi difficoltà – conquista progressivamente migliori salari, condizioni di lavoro, diritti sociali.

 

(29 agosto 2024)

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