Caporalato, a Pordenone dal Pakistan per essere sfruttati e ustionati - di Frida Nacinovich

Si è aperto il vaso di Pandora e ne escono i mali, come nella mitologia greca. La denuncia di quattro ragazzi che lavorano nei fertili campi del pordenonese lascia interdetti. Dopo un anno hanno ancora addosso i segni delle bruciature provocate da una massiccia dose di fitofarmaci, usati da padroni senza scrupoli per proteggere le viti dai parassiti. Operazione delicata, che avrebbe obbligatoriamente bisogno non soltanto di dispositivi di protezione individuale, ma anche di terreni completamente sgombri per un ragionevole lasso di tempo. Invece no, le denunce di Zahid Ullah, Ali Waquar, Yaseen Muhammad, Sufyan Abu raccontano che i fitofarmaci sono stati spruzzati sui filari d’uva mentre loro stavano lavorando.

“Stavamo legando gli stralci delle viti, quando l’uva è matura comincia a pesare - racconta Zahid - C’era un signore con un trattore che girava per il terreno spruzzando trattamenti, proprio mentre noi lavoravamo. Forse non ci ha visti”. I ragazzi sono nella sede della Flai Cgil di Pordenone, Pashmeen traduce parole che tratteggiano un mondo agricolo che ha ancora tanti, troppi passi da fare per garantire la sicurezza (e non solo) a chi lavora nei campi. Storie di quotidiane vessazioni, che unite alla cronica mancanza di diritti e tutele adeguate, di permessi di soggiorno che improvvisamente svaniscono, fotografano il paese peggiore, che antepone il profitto alla vita.

Quel giorno i ragazzi hanno continuato a lavorare, poi però sono stati costretti a fermarsi perché iniziavano a sentirsi male. Macchie nere dolorose, sulle braccia e sulle gambe, che oggi virano al marrone. “Quel signore che stava spruzzando il veleno non ha detto nulla - aggiunge Ali - Abbiamo cominciato a stare male, sempre peggio. Alla fine ci siamo spostati da un’altra parte del campo, che è molto grande”. “Il caposquadra - spiega Yaseen - aveva ordinato di finire il lavoro, ma l’aria era irrespirabile, non ce la facevamo più”. Alcuni si arrangiano con una pomata fornita dai caporali, altri soffrono in silenzio passando poi la notte a piangere per il dolore, qualcuno va a farsi medicare alla Caritas senza però dire come si è fatto quelle ustioni.

“Il referto medico parla chiaro - spiega Dina Sovran, segretaria generale della Flai Cgil di Pordenone - accusano anche dolori allo stomaco, provocati dall’esposizione ai pesticidi”. Zahid, Ali, Yaseen e Sufyan hanno chiesto aiuto alla Flai Cgil, a Dina e Pashmeen, che sono sempre in prima fila per contrastare una piaga che infetta anche il ricco nordest della penisola. “Ci siamo rivolti alla Flai perché altri connazionali ci hanno spiegato che il sindacato ci avrebbe potuto aiutare”. Loro hanno dei documenti di soggiorno provvisori, in attesa di conferma. “Non possiamo tornare a casa, altrimenti sarebbe poi impossibile rientrare in Italia”. La paura e il bisogno alimentano l’omertà, la scarsa conoscenza della lingua italiana fa il resto.

Le condizioni di lavoro nella città sul Noncello non sono diverse da quelle dei centri agricoli del centro e sud Italia, i quaderni del caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto sono indicativi al riguardo. “Quando si eseguono i trattamenti con i fitofarmaci tra le viti non ci deve essere nessuno - ricorda Sovran - è un elementare regola di sicurezza. Quello che invece sono costretti a fare i braccianti stranieri è ben diverso rispetto alle regole sulla salute”.

Non c’è solo l’attività nei campi, molti di questi ragazzi lavorano anche negli allevamenti di polli. “Succede che anziché lavorare nei campi ci venga detto di andare a spostare le cassette dei polli - racconta uno dei ragazzi - Il lavoro si svolge dalle 23 fino alle 4, 5 del mattino e poi alle poi alle 7 si va nei campi. Spostare le cassette dei polli è faticoso, c’è sempre una puzza tremenda. Quando c’è il lavoro dei polli lavoriamo anche 15-17 ore”.

Lamentarsi è vietato, altrimenti si corre il rischio di essere rispediti a casa senza troppi complimenti. Scorrendo le buste paga, la Flai si accorge subito che manca almeno la metà delle ore lavorate, un’altra ferita alla legalità. Anche i controlli sono scarsi, insomma c’è tanto lavoro da fare, da parte delle istituzioni, delle forze dell’ordine, in una parola della politica.

 

Zahid, Ali e Yaseen sono arrivati in Italia fra il 2020 e il 2021, Sufyan l’anno dopo, hanno età comprese tra i venti e i quarant’anni. Sono pakistani, si conoscevano già, le loro città natali sono Sialokot e Gujranwala. Hanno seguito la rotta balcanica, attraversando l’Iran e la Turchia, l’Albania, il Montenegro, la Serbia, la Bosnia, la Croazia, la Slovenia. “Tantissimi arrivano in Italia così, dopo un viaggio di mesi”. Sono migliaia e migliaia i loro connazionali ad affrontare questo viaggio della speranza, in cerca di un futuro migliore per sé e per le loro famiglie.

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