Biennale, una mostra che è un colpo al cuore. A Venezia, nel carcere femminile della Giudecca - di Michele Emmer

Per la Biennale d’Arte a Venezia il Papa ha deciso che bisognava romperne gli schemi un poco vetusti, bisognava dare una scossa alla città e alle coscienze scegliendo un luogo simbolo, invisibile, che c’è ma nessuno conosce: la casa di reclusione femminile Venezia “Giudecca”. Un'isola, la Giudecca, divenuta, da luogo dimenticato e separato dalla vera città, un posto come si dice glamour, alla moda. Il carcere femminile si trova a pochi metri da quella oscenità dell’albergo Hilton, dove sembra di stare in un albergo del midwest nordamericano.

La casa di reclusione invece è rimasta quello che era. Un carcere con circa 90 ospiti, come loro si definiscono, più le guardie carcerarie. Dunque nel carcere il Papa ha deciso che si doveva svolgere la mostra del padiglione senza sede della Santa Sede. Si doveva quindi organizzare la visita del pubblico, in numeri molto piccoli ovviamente. Con tutte le autorizzazioni necessarie per l’entrata in un luogo di reclusione, di espiazione, di pena. Con restrizioni addirittura provocatorie. Non si possono portare i telefonini, bottigliette d’acqua, nessun medicinale, nulla di personale.

Saremo ancora in grado di “vedere con i nostri occhi”, come si sono chiesti i due curatori Chiara Parisi e Bruno Racine? La mostra si intitola “Con i miei occhi”, parole tratte da un frammento di poesia che riprende i versetti 42.5 del Libro di Giobbe (“I miei occhi ti hanno veduto”) e il sonetto 141 di Shakespeare (“Non ti amo con i miei occhi”).

In questa operazione artistico culturale, in qualche senso missionaria, è insito un pericolo: compiere un atto di oscena voglia di cogliere attimi della vita di coloro che lì vivono a scontare la pena. Siamo entrati per vedere ma anche per portare la nostra solidarietà umana. Un atto di conforto prima di tutto per noi stessi.

La vera questione preliminare: come andrà l’incontro con le recluse? È stato brillantemente risolto dalla signora ospite del carcere che ci ha fatto da guida. Visibilmente emozionata, visibilmente molto nervosa, visibilmente molto preoccupata. Lei era il tramite tra i visitatori e il carcere, tra la vita dentro e fuori, tra gli artisti che in quel luogo avevano lavorato, e le ospiti che vi lavorano e vi lavoreranno quando noi saremo usciti, non per loro decisione.

La signora, chiamiamola Paola, ha cominciato a leggere i testi che erano stati preparati e ha iniziato con noi il percorso all’interno. Si sono aperte le porte blindate, una guardia ci precedeva, una ci seguiva. Il silenzio era totale, si sentivano solo le parole di Paola.

Nel primo corridoio, sulle pareti, delle lastre di lava su cui sono state riportate lettere, parole, versi proposte dalle ospiti del carcere. Perché restino incise a loro memoria. Al di là di quel muro ci sono persone che non vediamo, che non sappiamo chi siano e perché sono lì. “Luogo dove può capitare ognuno di noi” ci ha ricordato Paola. Ed ecco l’imprevisto. Mentre noi passavamo uno dietro l’altro, sotto un piccolo arco sovrastato da una finestra, un secchio d’acqua è stato versato su alcuni di noi. Chi lo ha versato? Una ospite. Perché? Una protesta, un richiamo a ricordarci dove eravamo? Un segno, un errore, un rifiuto, un sentirsi oggetti in mostra?

La risposta è nel grande cortile. L’artista ha realizzato una grande scritta blu illuminata di notte, “Siamo con voi nella notte”. Le parole di Paola, le sue, non nei testi preparati: “La notte, quando tra le grate guardiamo il cortile, vediamo quella scritta luminosa blu, e almeno io sono contenta, qualcuno sta pensando a noi. Sono nella mia stanza e fuori qualcuno ci ricorda”. Non userà mai altre parole se non “stanze”.

Siamo in uno spazio tutto dipinto per i bambini, un piccolo parco per i giochi all’esterno, sempre per i bambini. “Loro non possono stare alle nostre regole!”. Visitiamo i diversi ambienti, le altre opere d’arte, la “Sinfonia”, la performance che ci sarà a settembre con alcune delle ospiti che parteciperanno come persone recitanti, attrici.

In una “stanza”, uno degli artisti ha realizzato serigrafie delle fotografie fornite dalle ospiti con ritratti di figli, nipoti, parenti, amici. Paola ci ha detto “Siamo felici di questa stanza, esistiamo anche noi, siamo diventate parte di un’opera d’arte” ed ha indicato una sua stretta parente in una delle opere.

C'è anche un breve film di un regista italiano che vive a New York, realizzato interamente nel carcere con una attrice famosa, oltre ad alcune ospiti. E Paola ci ha avvertito sul film, in bianco e nero. “Le nostre stanze non sono così cupe come sembra, non sono così brutte, ci stiamo abbastanza bene”. Le donne, a letto, in bagno, pensierose, tristi nel film. Il personaggio interpretato dall’attrice sta lasciando il carcere, un’altra donna sta entrando in quel luogo. Silenzio totale all’uscita dalla piccola sala.

È venuta la fine del giro dopo una quarantina di minuti. Paola si è messa al centro di noi, ci ha detto “Sono molto felice ed emozionata, molto felice. Se vorrete tornare, la mostra finisce il 14 novembre come la Biennale, e io come le altre sarò sempre qui ad aspettarvi”.

 

 

(Un racconto più ampio su: https://www.strisciarossa.it/una-mostra-che-e-un-colpo-al-cuore-a-venezia-nel-carcere-femminile-della-giudecca/)

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