Monticchiello: il Teatro Povero. Non di idee - di Gabriele Rizza

La storia di Monticchiello, ventoso borgo di Toscana, affacciato sulla Valdorcia, di fronte a Pienza, terre senesi di lunari crete, è anche, e soprattutto, la storia del suo teatro. Un teatro particolare. Unico nel suo genere. Che nasce nel 1967 e non si è mai fermato.

Si chiama Teatro Povero e “autodrammi”, come felicemente li definì Giorgio Strehler, si chiamano i suoi racconti. Una formula entrata di diritto, con passo e consapevolezza inediti, nella corrente della drammaturgia italiana del ‘900. Che ogni volta ci riserva sorprese. E ci consegna allestimenti originali, frutto di indomita, non omologata creatività. E complicità. Legati al territorio e ai suoi abitanti. Storie domestiche, cronaca quotidiana, appuntamenti tragici o di festa, capitoli che superano la periferia geografica per farsi centralità di un osservatorio aperto sulle contraddizioni e le derive del mondo di oggi.

Il Teatro Povero sarà anche diventato un “ brand”, complice il made in Tuscany, paesaggistico ambientale culturale enogastronomico, ma resta, nella sua unicità artistico produttiva, un progetto di sopravvivenza, resistenza e immaginazione. Un progetto che dura appunto dal 1967. Da quando, nel boom economico che si andava sgonfiando, e che qui, civiltà contadina e universo mezzadrile, avrebbe avuto esiti traumatici (la ricetta “agroturistica” non era all’orizzonte), la “gente” del posto decise di uscire allo scoperto, di mettersi in scena, di raccontarsi, un po’ per celia un po’ per non morire, di affermarsi come comunità epica, paesaggio umano, consorzio civile.

Nasceva così questo Teatro Povero, di mezzi ma non di idee, in bilico fra documentazione e testimonianza, uno spettacolo fatto in casa, nel senso più concreto del termine (scrittura, scenografia, cast, regia), tutti insieme, fra analisi commenti discussioni riflessioni intuizioni, ci si confronta, si decide, si mettono a punto trame e contenuti, si cova d’inverno e si partorisce d’estate.

L’autodramma di Monticchiello è organismo verace, docile e trasgressivo, una sorta di esorcismo comunitario, è materia viva che parte dal basso, da far maturare giorno dopo giorno. E’ un paradigma di scelte narrative di estrazione popolare che non ha eguali, un unicum, dove tradizione e sperimentazione si danno la mano e procedono insieme alla scoperta di vecchi panorami, archivi e scrigni più o meno segreti, episodi dimenticati, vite vissute, speranze e illusioni, vittorie e sconfitte. Sono cose che risuonano antiche e familiari, ma mai addomesticate, e che echeggiano ogni volta diverse: più lucide o confuse, oniriche, realistiche, più astratte o concrete, fra reale e metafisico. Sempre, sistematicamente indocili.

Rimbalzano, da quel palco allestito sulla pubblica piazza, il tempo delle mezzadria, le lotte la terra i padroni gli scioperi, sono innesti del nuovo mondo sui ritmi di antiche consonanze, sono le vecchie glorie che muoiono, svaniscono ma resistono, sono le campagne che si spopolano e gli agriturismi che dilagano, il lavoro che manca ieri come oggi, bisogna emigrare e anche morire in miniera, a Marcinelle, sono i cambiamenti, le mutazioni antropologiche prima che culturali, i servizi che latitano (scuola, ufficio postale, trasporti), sono i vecchi che alla fine non ci sono più, i giovani che vanno e vengono, che annusano la storia (le storie dei padri) ma non sanno cosa farsene.

Sono strategie di sopravvivenza quelle che qui affiorano d’estate, strategie che si interrogano e ci interrogano, e perlustrano il vissuto, il loro, il nostro, geografie dell’anima e mappe societarie, rituali ostinati e sensibili, costellazione corali e perimetri assembleari che intrecciano le storie di “dentro” con quelle di “fuori”, impastando le memorie dei padri con le utopie dei figli, scolorando l’immagine del passato sui binari della contemporaneità e del nuovo (che forse non avanza ma di certo preme), sempre trovando un equilibrio, imperfetto e poco rassicurante, fra le varie spinte che lo animano e di anno in anno lo rimettono in gioco.

C’è da sempre a Monticchiello, grazie al Teatro Povero, un sentimento autentico di comunità, la gente del posto che si riappropria delle proprie “gesta”, le elabora, le decanta, le drammatizza e ce le travasa nel suo valore simbolico. Come una fiaba, come una stella cometa che illumina e lava la mente. Monticchiello: un terminale drammaturgico, colto e popolare, un laboratorio teatrale che intercetta, con spontaneo senso critico e dolorosa consapevolezza, le mille contraddizioni della società contemporanea. Un teatro capace di dialogare col mondo esterno senza dimenticare il proprio habitat familiare. Anzi da esso partendo, in esso immergendosi e al tempo stesso da esso affrancandosi.

I solchi della gente di Monticchiello, fra guerra partigiana, lotte di liberazione, lotte sindacali, mezzadria, modernizzazione, crisi, spopolamento della campagne, fine di un mondo contadino, hanno innervato l’impalcatura del racconto. Spesso trasfigurandosi in sogno grazie alla visionaria cura di Andrea Cresti, per anni mentore e demiurgo delle “messe” in scena.

 

 

(vedi: https://teatropovero.it/)

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