Dove va lo Stato di Israele? - di Milad Jubran Basir

Fin dalla sua nascita lo Stato di Israele non ha mai affrontato una guerra come quella che sta conducendo a Gaza, così come viene descritta dai mezzi di comunicazione internazionali. Non si tratta di una guerra ma di una aggressione, contro un fazzoletto di terra che non arriva a misurare 400 kmq e dove vivono oltre 2 milioni e mezzo di persone.

Israele ha sempre condotto le sue guerre fuori dai propri confini (lo Stato di Israele non ha stabilito i suoi confini) a partire dal 1947, passando al 1956 (aggressione contro l’Egitto di Nasser) e poi la guerra dei sei giorni, la guerra del 1973, l’invasione del Libano nel 1982.

Israele ha sempre bombardato gli Stati limitrofi e non ha mai avuto le sue città bombardate. Ciò è successo solamente nel 1991, quando l’Iraq ha lanciato 49 missili verso il territorio israeliano e Saddam Hussein disse la celebre frase: “Vorrei vedere se i leader arabi tutti avranno il coraggio di lanciare solo un missile per arrivare a 50”.

Dal 7 ottobre 2023 l’equazione si è modificata radicalmente. La guerra stavolta non viene vissuta dai cittadini israeliani solamente attraverso la tv, questa volta essa produce anche per loro devastazione, sfollamento, vittime e distruzione. Sono oltre 130mila i cittadini israeliani sfollati che hanno abbandonato le loro case da tutti i villaggi e città al confine con il Libano, e da insediamenti al confine di Gaza. Questa volta la guerra viene vissuta con tutta la sua atrocità, compresi o morti tra i soldati: secondo i dati dell’esercito sono oltre 700 le vittime, oltre 7mila i soldati feriti, una decina i suicidi.

Un’altra novità di questa “guerra” è il fattore tempo: Israele era abituata a fare bombardamenti massicci e nel giro di qualche giorno neutralizzava il nemico. Un caso eccezionale fu l’assedio dell’Olp a Beirut nel 1982, durato 90 giorni. Questa “guerra” invece dura da oltre nove mesi e non si vede ancora la fine, purtroppo.

Una novità assoluta riguarda anche l’esito di questa brutale “guerra”: basti pensare al percorso storico del conflitto israelo–palestinese, in cui l’esercito israeliano, sostenuto da diverse potenze occidentali, ha sempre vinto. È evidente invece che questa “guerra” non è come tutte le altre, perché l’esercito più potente della terra non riesce a vincere sul campo di battaglia, come affermano i suoi stessi generali che stanno chiedendo ad alta voce di fare un accordo con la resistenza palestinese.

Come dimostrano le notizie da Gaza e dalla Cisgiordania, nonostante la distruzione, la devastazione totale, l’assedio, l’embargo e il numero delle vittime (si calcola che siano oltre 150mila tra morti e feriti, senza prendere in considerazione i dispersi), nessuno ha alzato bandiera bianca, e la resistenza palestinese dimostra di sapere rinnovarsi, rigenerarsi e riorganizzarsi.

Nel campo israeliano il vento soffia in senso contrario. Il gap tra la leadership politica, formata dal primo ministro Netanyahu e i ministri Ben Gvir e Smotrich, e la leadership militare, formata non solo dal ministro della difesa Gallant ma anche dai grandi generali dell’esercito, in merito alla scelta di continuare la “guerra” oppure firmare un accordo con la resistenza, è molto ampio.

Il potere militare sta già presentando da tempo al potere politico la convenienza di una tregua, anche al costo di far rimanere Hamas al potere a Gaza. Fonti giornalistiche israeliane evidenziano che oltre 900 ufficiali dell’esercito avrebbero già comunicato la loro intenzione di non rinnovare il loro servizio militare prolungato (nella normalità annualmente l’esercito riceveva da 80 a 100 disdette di questa natura). Le ragazze israeliane stanno rifiutando di arruolarsi nell’esercito e non vogliono essere messe nei servizi logistici, perché non si sentono protette dai colleghi maschi dopo quello che hanno subito il 7 ottobre.

Si calcola che alla data odierna oltre mezzo milione di cittadini israeliani abbia lasciato Israele, tornando in Occidente.

È convinzione di tanti, non solo degli intellettuali ma anche dei semplici cittadini, che la leadership politica israeliana stia modificando radicalmente l’esercito che storicamente rappresentava una garanzia per l’intero paese: ora si tratta di un esercito e di squadroni al servizio dei coloni, e degli interessi personali del primo ministro e dei suoi soci.

Infine, l’opinione pubblica israeliana ha capito che non conviene stare in stato di guerra permanente occupando con la forza militare un altro popolo e calpestando i suoi più elementari diritti? Ha capito che la forza della ragione è più potente della ragione della forza?

Fino a quando gli Usa e l’Occidente continueranno a sostenere Israele? E se arrivasse un momento in cui questo sostegno venisse meno, che succederebbe? Non converrebbe a Israele vivere in santa pace dentro confini sicuri e non dipendere da nessuno? Domande lecite, che ancora non trovano risposta.

Come affermava il leader Marwan Barghouti, da oltre 24 anni chiuso in un carcere israeliano: “L’ultimo giorno di occupazione sarà il primo giorno di pace”.

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