Il complesso militare-industriale e l’economia di guerra: le ragioni di un’alternativa - di Andrea Cagioni

Il netto aumento di spese di guerra negli ultimi anni, unito alle crescenti tensioni fra blocchi geopolitici e al declino dell’egemonia Usa, potrebbe prefigurare l’avvento di un’economia di guerra o di un nuovo keynesismo militare, ossia un modello di crescita economica affidato al complesso militare-industriale. Il contrasto all’aumento di spese, ad esclusivo beneficio degli interessi di questo blocco di potere, assume quindi oggi un’importanza decisiva anche in ottica sindacale.

Questi e altri temi legati ai complessi rapporti tra guerra, economia e lavoro sono stati al centro di un denso dibattito, organizzato da Flc Cgil Toscana, Cgil Toscana, Ires Toscana e Proteo Fare Sapere. Chiara Bonaiuti (Ires Toscana), Dario Guarascio (Università La Sapienza) e Andrea Coveri (Università di Urbino) hanno presentato alcuni risultati dell’indagine collettiva, “Economia a mano armata 2024”, che fornisce rilevanti approfondimenti sull’industria degli armamenti e i suoi effetti socio-economici.

Un primo dato impressionante riportato è il volume di spese militari dei Paesi dell’Unione europea membri della Nato, aumentato in modo esponenziale negli ultimi dieci anni. Nel periodo 2014-23, in questi Paesi il budget per le spese militari è incrementato del 46%, da 145 a 243 miliardi di dollari. Tuttavia i lavoratori e le lavoratrici non hanno beneficiato di questo enorme aumento di investimenti di capitali diretto all’industria bellica. Al contrario, esso si è rivelato complementare alla riduzione della spesa sociale, e di quegli investimenti pubblici in grado di favorire una buona qualità dell’occupazione e un aumento dei salari.

In altre parole, il keynesismo militare non è un modello che genera crescita economica e occupazionale, anche perché del tutto interno alla dinamica e alla logica del capitalismo finanziario e dei monopoli digitali. Lo dimostrano i dati relativi al 2022 della capitalizzazione borsistica delle multinazionali della difesa su scala mondiale, cresciute del 27%, più di ogni altro settore.

Guarascio, presentando la configurazione della guerra nell’epoca delle piattaforme digitali, ha sottolineato le profonde connessioni tra gli Stati e ciò che possiamo indicare come il complesso militare-digitale. Nel processo di digitalizzazione dell’economia e di settori essenziali della vita sociale, dominato dal potere dei colossi tecnologici Usa, anche l’apparato militare è sempre più coinvolto da questa trasformazione.

Di fatto i monopoli del digitale sono sempre più integrati all’industria militare. Si assiste a una relazione sempre più simbiotica fra i monopoli digitali, la finanza e i vari attori che compongono l’industria militare. Ciò si riscontra anche nei campi di battaglia, dove le tecnologie digitali sono divenute componenti decisive. Un motivo di concreta preoccupazione è legato al duplice uso di queste nuove tecnologie digitali con applicazioni belliche, che dal campo militare possono poi riversarsi in campo civile, con obiettivi di controllo sociale e di intelligence.

Di grande interesse l’intervento del prof Emiliano Brancaccio, che ha brevemente illustrato le principali tesi della sua recente pubblicazione, “Le condizioni economiche per la pace”. Secondo la sua interpretazione, l’uso da parte statunitense di strumenti non convenzionali di guerra commerciale e finanziaria – parte essenziale della strategia neo-protezionista Usa dalla prima metà degli anni ’10 – contro gli Stati considerati ostili, si spiega non solo con motivazioni di tipo geo-politico, territoriale e di sicurezza, ma con ragioni di ordine finanziario.

Un elemento cruciale per capire i conflitti in atto è il timore delle élite statunitensi che i capitali cinesi, russi e di altre nazioni creditrici possano acquisire la proprietà delle aziende strategiche Usa, volgendo a loro vantaggio la legge di centralizzazione dei capitali.

In definitiva, il legame sempre più stretto fra complesso militare-industriale, Stati occidentali, fondi finanziari e monopoli digitali pone inquietanti interrogativi e preoccupazioni. Questo dato di fatto investe anche il nostro sindacato, che deve insistere nella costruzione di punti di convergenza con altre forze sindacali, politiche e associative. Servono parole d’ordine chiare e semplici, che al rifiuto della guerra sappiano abbinare la ricerca di un modello economico e sociale agli antipodi del futuro di orrori prefigurato dal complesso militare-industriale.

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