L’autonomia differenziata è un progetto che non ha nulla di estemporaneo, di improvvisato, di folkloristico. C’è invece una matrice - separatista, egoistica, antiunitaria - che è stata il cuore e la spinta propulsiva di questo disegno, e che lo segna irrimediabilmente.
Si tratta di un provvedimento che produrrà effetti nefasti su ogni piano: aumenterà i divari tra le diverse aree del Paese; aggiungerà alla competizione sociale quella territoriale; frammenterà localmente le politiche pubbliche su materie di straordinaria rilevanza strategica.
Non hanno fatto marcia indietro neppure sulla scuola. E alla Cgil basterebbe questo per esprimere la contrarietà più netta e radicale, perché regionalizzare l’istruzione infliggerebbe un colpo mortale alla stessa identità culturale del Paese. C’è inoltre la certezza che le persone che rappresentiamo (lavoratori e pensionati) non hanno nulla da guadagnarci, anzi subiranno un ulteriore aumento delle già insopportabili diseguaglianze sociali che attraversano la nostra società.
Questo accadrà sia mettendo in discussione il contratto collettivo nazionale di lavoro (hanno rispolverato persino le gabbie salariali…); sia consentendo alle Regioni più ricche di trattenere sul proprio territorio il cosiddetto “residuo fiscale”. Se ciò avvenisse, qualunque politica sociale e di coesione non avrebbe più le gambe su cui camminare.
Oltretutto, il “residuo fiscale” è un concetto che va contestato radicalmente: il rapporto fiscale non intercorre tra lo Stato e i diversi territori, ma tra lo Stato e i singoli cittadini. L’unico, vero residuo fiscale che esiste è quello a carico del cittadino più ricco (che sia veneto, campano, lombardo o calabrese) il quale, in base alla sua capacità contributiva, deve finanziare di più il sistema redistributivo che sta alla base del fisco progressivo e del welfare universalistico.
È questo il vero fronte di attacco di una destra che tutela gli interessi di un ben preciso blocco sociale, mentre non muove un dito di fronte al brutale impoverimento di milioni di persone che vivono di lavoro o di pensione.
Altro aspetto dirimente: le materie e i settori di straordinaria rilevanza strategica su cui si vorrebbe riconoscere alle Regioni una competenza esclusiva, sottraendola totalmente allo Stato. A partire da un tema come la salute e sicurezza sul lavoro, che per noi è una priorità irrinunciabile. Regionalizzare la legislazione su questa delicatissima materia determinerebbe un ulteriore dumping territoriale, con le aziende spinte a investire nelle Regioni che hanno più allentato i controlli. È inaccettabile.
Poi ci sono tutte le altre materie: politiche energetiche, reti e infrastrutture, porti e aeroporti, comunicazione, trasporti, ricerca scientifica, ambiente, cultura, e così via... Togliere allo Stato la competenza su di esse equivarrebbe a rinunciare a un governo nazionale e unitario delle politiche economiche, industriali e di sviluppo del Paese, in un tornante storico drammatico in cui – per affrontare le sfide epocali che abbiamo di fronte, su tutte la transizione digitale e la conversione ecologica – non basta più nemmeno la dimensione nazionale.
Il nostro Paese dovrebbe piuttosto spingere per una maggiore unità e coesione europea, e per rilanciare politiche economiche, energetiche e industriali comuni sul modello “Next generation Eu”. Invece fa il contrario. Determinando, oltretutto, una insostenibile frammentazione di regole e regimi giuridici differenziati su base regionale: una giungla normativa inestricabile per le stesse imprese e per gli operatori economici. Questo dovrebbe preoccupare molto anche il sistema imprenditoriale e, in particolare, proprio quello del nord Italia.
Non è nemmeno interesse del nord imboccare questa strada, perché solo rilanciando la domanda interna nazionale, a partire dal Mezzogiorno, e facendo leva sulla straordinaria interdipendenza tra l’economia settentrionale e meridionale possiamo agganciare una prospettiva di crescita solida e duratura per tutti, e proiettarci – come grande sistema-Paese – in Europa e nel Mondo.
Per tutti questi motivi la Cgil, con un larghissimo arco di forze sociali, politiche e della società civile, ha già depositato in Corte di Cassazione il quesito referendario che chiede la totale abrogazione della legge Calderoli. L’obiettivo è celebrarlo insieme ai nostri referendum popolari sul lavoro, tenendo insieme questione sociale e questione democratica, che sono indissolubilmente intrecciate. Credo ci siano tutte le condizioni per vincere questa battaglia: “Cinque Sì” in difesa della Costituzione e per cambiare il modello sociale e di sviluppo del nostro Paese.
Roma, 10 luglio 2024