Cosa c’è dietro le dimissioni del generale israeliano Benny Gantz? - di Milad Jubran Basir

Indubbiamente le dimissioni dell’ex generale Benny Gantz dal gabinetto di guerra in una fase come questa della guerra contro Gaza obbligano gli osservatori internazionali a porsi diverse domande.

I tre punti illustrati da Gantz durante la sua tanto attesa conferenza stampa non vanno visti solo dal punto di vista politico, ma anche da quello giuridico e morale. Gantz ha dichiarato che il disaccordo tra lui e il primo ministro riguarda la sua visione e disponibilità a collaborare con gli Usa per arrivare all’accordo con il movimento di resistenza islamica Hamas.

Come si è notato, è da tempo che il primo ministro israeliano non solo non collabora con l’amministrazione americana, ma addirittura va in una direzione opposta al pensiero e alla politica americana. Un altro motivo della decisione di Gantz costituisce un capo d’accusa contro il primo ministro, perché afferma che lui impedisca l’avanzamento verso la vittoria in quanto mette sempre degli ostacoli per bloccare l’eventuale accordo con il movimento in merito alla liberazione degli ostaggi-prigionieri.

Le sue dichiarazioni possono avere riflessi non solo sull’opinione pubblica israeliana ma anche a livello internazionale, perché lo stesso governo israeliano ha sempre dichiarato che Hamas è il vero ostacolo per un eventuale accordo. Dicendo così, Gantz di fatto afferma che non importa a Netanyahu l’uccisione né dei cittadini palestinesi né di quelli israeliani: per lui l’importante è prolungare il periodo di guerra per evitare l’aula del tribunale.

Gantz non si è limitato a questo, ma ha anche lanciato un’idea che potrebbe trovare molti consensi all’interno delle forze politiche e l’opinione pubblica: ha chiesto di dare vita ad una commissione d’inchiesta per accertare la responsabilità di Netanyahu per quello che è accaduto il 7 ottobre, sapendo che un’eventuale commissione di questa natura porterebbe Netanyahu direttamente nell’aula del tribunale. Gantz ha anche usato toni e termini di disponibilità verso il ministro della Difesa, Yoaf Gallant del Likud, invitandolo ad abbandonare il governo così da provocarne la crisi.

È noto a tutti che Gantz non è un uomo di pace, ma è un ex generale, guerrafondaio come Netanyahu. Come quest’ultimo vorrebbe allargare il conflitto con il Libano e non è affatto d’accordo sulla nascita di uno Stato palestinese, come recita il tanto discusso accordo di Oslo.

Lo sviluppo di questa vicenda, che potrebbe vedere altri ministri seguire Gantz, dipende da diversi fattori. In primis una vera pressione americana sul primo ministro, in secondo luogo la mobilitazione delle piazze in Israele per arrivare all’accordo, infine il comportamento e le decisioni della Corte Penale Internazionale e della Corte di Giustizia dell’Onu in merito al cessate il fuoco e all’eventuale sanzione contro Netanyahu.

Qualche giorno fa si è tenuto un convegno in Qatar che ha visto la partecipazione di circa ottanta personalità palestinesi della diaspora e non solo, guidato dal dottor Azmi Bishara, un intellettuale, accademico e uomo politico palestinese nato a Nazaret nel 1956. Bishara era il leader dell’aggregazione nazionale democratica in Israele ed era un deputato nel Knesset israeliano. Ora è il direttore del Centro arabo di Ricerca e studi politici. Questo convegno aveva lo scopo di tracciare una linea guida per una nuova classe dirigente palestinese sotto l’ombrello dell’Olp (Organizzazione della Liberazione della Palestina), alternativa all’attuale classe dirigente.

Il 10 giugno scorso il Consiglio di Sicurezza ha approvato una risoluzione per il cessate il fuoco a Gaza, il ritiro dell’esercito israeliano e lo scambio dei prigionieri. La risoluzione ha avuto l’approvazione di 14 Stati, con la sola astensione della Russia. Informazioni non confermate indicano il benestare di Israele e Hamas al cosiddetto piano del presidente americano Joe Biden.

L’11 giugno in Giordania è partito l’incontro internazionale per garantire gli aiuti umanitari a Gaza sotto la guida del re giordano Abdullah, con la partecipazione del segretario generale delle Nazione Unite, del presidente egiziano Al Sisi, di Antony Blinken e del presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. Esperti ed economisti anche israeliani stimano i danni economici causati da questa folle guerra a circa 50 miliardi di dollari.

Il presunto piano Biden prevede la liberazione o lo scambio di prigionieri israeliani tenuti a Gaza e i detenuti palestinesi, tra cui qualche leader carismatico.

Tutta questa mobilitazione in campo israeliano, palestinese, arabo e internazionale ci conduce a pensare dell’esistenza di un piano operativo che permette a tutti i soggetti di uscire dall’angolo con il minor danno possibile: Biden va al voto a novembre, e così facendo cerca di recuperare il voto degli arabi e musulmani americani e dei giovani, Netanyahu può evitare il mandato di cattura internazionale, l’Egitto e la Giordania possono presentarsi ai loro concittadini senza paura.

La domanda gigantesca che non trova risposta è: ai palestinesi cosa succede?

 

 
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